Il 3 ottobre 1860, Vittorio Emanuele II, con una tempistica eccezionale perché avveniva immediatamente il giorno dopo l’epica battaglia del Volturno del 1 ottobre e proseguita in parte fino al 2 ottobre 1860, entrò ad Ancona per mettersi alla testa delle sue truppe, 46 battaglioni di 39.000 uomini, in sostanza per poter prendere militarmente possesso del Regno delle Due Sicilie e mettere da parte Garibaldi. In quell’occasione ebbe a proclamare solennemente:
“Le mie truppe s’avanzano fra voi per affermare l’ordine: io non vengo ad imporre la mia volontà, ma a rispettare la vostra…” ma Cavour aveva già deciso l’annessione a prescindere se i napoletani la volessero o no, e si dette subito da fare per legalizzare in qualche modo l’illegittima ed illegale invasione di un regno con il quale il Piemonte non aveva mai avuto ufficialmente dissidi né aveva mai dichiarata nessuna ostilità.
Un plebiscito per mascherare l’annessione
Anche questa volta lo strumento utilizzato fu l’indizione dell’ennesimo plebiscito.
L’unica novità, che rendeva ancora di più illegittimo l’utilizzo delle strumento plebiscitario, è che il Regno delle Due Sicilie era quello di un regno legittimo, riconosciuto da tutte le diplomazie mondiali, non c’era stata rivolta di popolo contro il re e quest’ultimo non si era né dimesso né era fuggito col suo patrimonio all’estero ( infatti lo aveva lasciato nel caveau del Banco di Napoli che lo crediate o meno e non gli fu mai restituito, perché la condizione posta dal Piemonte fu quella di riconoscere legittimo l’esito del plebiscito ).
Infatti il plebiscito fu indetto mentre si combatteva ancora e inoltre l’esercito napoletano si preparava a vivere alcune delle sue pagine più gloriose nell’Assedio di Gaeta, contro i garibaldini e soldati piemontesi che questa volta combattevano assieme. Assedio che durò tre mesi mentre i piemontesi pensavano di sgominare i resti dell’esercito duosiciliano alla vigilia del plebiscito che era stato fissato per il 21 ottobre 1860. I fatti non andarono così.
La battaglia di Macerone
Il 20 ottobre 1860, alla vigilia della consultazione, sul valico del Macerone, ci fu l’ennesima battaglia di aggressione: I soldati borbonici erano comandati dal generale Luigi Scotti Douglas e l’esercito piemontese comandato dal generale Enrico Cialdini.
Macerone era un valico sull’Appennino che collegava l’Abruzzo con il Molise dove passava allora la strada che conduceva da Napoli a L’Aquila. I borbonici inferiori di numero persero la battaglia ma consentirono al resto dell’esercito di dirigersi sul Garigliano e a Gaeta.
Il plebiscito
Il Plebiscito era un istituto del Diritto Romano inteso ad interrogare il popolo per conoscerne la volontà su determinate questioni di interesse generale. Infatti la parola deriva dal latino plebiscitum a sua volta derivante dalla fusione delle parole plebs (“plebe, popolo”) e scitum (stabilito, deciso cioè “quello che ha stabilito il popolo”. Caduto in disuso con la fine della Repubblica e l’avvento dell’impero perché da quel momento in poi il popolo non ebbe più voce in capitolo nelle scelte politiche, fu riesumato in Francia da Napoleone III nel 1851 per far convalidare il suo colpo di stato.
Poi il Piemonte se ne servì abbondantemente.
Stupisce, leggendo il decreto di indizione, la velocità dei tempi e delle procedure previste, se si tiene conto che fu indetto in un momento non solo storicamente in preda alle convulsioni della guerra, ma in un paese con poche strade, pochi telegrafi e scarsa rete ferroviaria. Per tempi così ravvicinati, sarebbe occorso un odierno sistema informatico di quelli utilizzati dai moderni ministeri degli interni. In 2/3 giorni si organizzò tutto, si formarono le liste elettorali e si giudicarono i ricorsi. In realtà come per quelli precedenti, il Plebiscito dell’ottobre 1860 per l’annessione al Piemonte, fu una vanagloriosa, aberrante e tragica messinscena per salvare la forma di cui tutti i governanti europei erano ben consapevoli.
Al voto meno del 2% degli aventi diritto
Il Regno delle Due Sicilie contava circa 10 milioni di abitanti, votarono appena un milione e mezzo circa, ma valse a decretare la sua fine. Non bisogna dimenticare che il voto, per stessa disposizione del decreto, non era segreto ma palese: l’elettore doveva ritirare la scheda prendendola da una delle due urne rispettivamente contrassegnate con le scritte Si e No – e quindi deporla nell’urna centrale. I seggi erano presidiati da soldati armati quando non c’erano anche i camorristi; votarono i garibaldini, l’esercito piemontese ed i loro accoliti a piene mani. Non votarono i soldati delle Due Sicilie che difendevano l’antico regno, coloro che non riconoscevano la validità dello strumento giuridico e infine la gran massa del popolo che da quelle cose da “signori” si teneva alla larga. Anche perchè bastava manifestare il desiderio di votare per il mantenimento dello stato dei Borbone per essere arrestati e rinviati a giudizio accusati di voler distruggere la forma di Governo; a volte bastava un semplice sospetto e subire un fermo preventivo per impedire a numerosi cittadini di partecipare a voto.
Così scriveva lo storico lucano Tommaso Pedìo, (Potenza 1917 – Potenza, 2000), un personaggio al quale i Borbone erano tutt’altro che simpatici, noto particolarmente per i suoi studi sul Risorgimento italiano.
La prevista schiacciante vittoria dei SI
La votazione del 21 sancì a grandissima maggioranza dei votanti, l’unione del Regno delle Due Sicilie al regno sabaudo, compresa la Sicilia che aveva dato inizio a quest’amba-aradam proprio per affermare la sua autonomia ed indipendenza. Sulla regolarità della consultazione non é il caso di soffermarci.
Dopo il plebiscito Vittorio Emanuele II il 26 ottobre si incontrò a Teano con Garibaldi per dargli il preavviso del licenziamento, ma lo volle al suo fianco quando fece il suo ingresso ufficiale a Napoli il 7 novembre 1860. In quell’occasione le statue equestri di Ferdinando IV e Carlo di Borbone vennero coperte perché allora non si usava ancora abbatterle Il giorno successivo a Palazzo Reale Garibaldi comunicò ufficialmente i risultati del plebiscito proclamando Vittorio Emanuele II re d’Italia. Il 9 novembre 1860 l’ex dittatore partiva per l’esilio di Caprera.
Questi i risultati:
Napoli: 1.302.064 si, 10.302 no;
Sicilia: 432.053 si, 667 no!
Per solennizzare la vittoria, la piazza antistante la Reggia, una delle piazze più belle d’Italia, fu chiamata, nome che mantiene ancora oggi, “Piazza del Plebiscito”. Sarebbe il caso di cambiare questa toponomastica in omaggio alla rivisitazione storiografica che anche se assume a volte aspetti grotteschi come la c.d. “cancel culture”, in questo caso sarebbe più appropriata che mai. La piazza potrebbe essere intitolata perché no a Ferdinando I, oppure a Ferdinando II e perfino all’ultimo Re di Napoli, Francesco II, il famoso “Franceschiello, così chiamato con disprezzo da molti settentrionali e con affetto dai meridionali e che fra l’altro, ha in corso una procedura per essere dichiarato Beato dalla Chiesa Cattolica.
Nessuno di questi tre re borbonici ha l’onore di avere intitolata neppure un vicolo, mentre abbondano le piazze Garibaldi, le Vie Mazzini eccetera.
Solo a Torre del Greco, mi sembra di ricordare c’è una strada intitolata al Re Ferdinando II di Borbone
Quella di Garibaldi in fondo fu una rivoluzione mancata che ben altri sbocchi avrebbe potuto avere per tutta la Penisola, ma la Storia non é fatta di se e così il 13 febbraio 1861 Francesco II capitolò dopo aver salvato l’onore, almeno quello militare, di un regno crollato sotto la scommessa di un migliaio di persone, impresa resa possibile perché ormai i tempi erano maturi per il cambiamento, altrimenti le camicie rosse sarebbero state ributtate a mare in poche ore. Su questo rapido tracollo si sono fatte molte congetture e divagazioni. Secondo alcuni osservatori dell’epoca, oltre alla determinazione di Cavour, non fu estranea la determinante volontà dell’Inghilterra e quella, seppur in tono ridotto, della Francia, ma anche la speranza che forse le cose potessero cambiare in meglio. Cosa che molti meridionali stanno ancora sperando
21/10/2021
Decreto di indizione del Plebiscito
Art.1
Il Popolo delle Province continentali dell’Italia Meridionale sarà convocato pel dì 21 del corrente mese di Ottobre in Comizi per accettare o rigettare il seguente plebiscito: «Il Popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale e suoi legittimi discendenti.» Il voto sarà espresso per «SI» o per «NO», col mezzo di un bollettino stampato.
Art.2
Sono chiamati a dare il voto tutti i Cittadini che abbiano compiuto gli anni 21 e si trovino nel pieno godimento dei loro diritti civile e politici. Sono esclusi dal dare il voto tutti coloro i quali sono colpiti di condanne siano criminali siano correzionali, per imputazione di frode, di furto, di bancarotta e di falsità. Sono esclusi parimenti coloro i quali per scadenza sono dichiarati falliti.
Art.3
Dal Sindaco di ciascun Comune saranno formate le liste dei votanti ai termini dell’articolo precedente le quali verranno pubblicate ed affisse nei luoghi soliti pel giorno 17 Ottobre. Reclami avverso le dette liste saranno prodotti tra le 24 ore seguenti innanzi al Giudice di Circondario che deciderà inappellabilmente per tutto il dì 19 detto mese.
Art.4
I voti saranno dati e raccolti in ogni Capoluogo di Circondario presso una giunta composta dal Giudice presidente e dai Sindaci dei Comuni del Circondario. Si troveranno nei luoghi destinarti alla votazione su di un apposito banco tre terne, una vuota nel mezzo e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bollettini del «SI» e nell’altra quelli del «NO», che ciascun votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota.
Art.5
Compiuta la votazione invierà immediatamente l’urna dei voti chiusa ed assicurata per mezzo del Giudice suo Presidente, alla Giunta Provinciale.
Art.6
In ogni capoluogo di Provincia vi sarà una Giunta Provinciale composta dal Governatore presidente dal Presidente e Procuratore Generale della Gran Corte Criminale e dal Presidente e Procuratore Regio del Tribunale Civile. Tale Giunta in seduta permanente, procederà allo scrutinio dei voti raccolti nelle Giunte Circondariali e invierà immediatamente il lavoro chiuso e suggellato per mezzo di un agente municipale o di altra persona di sua fiducia al Presidente della Suprema corte di Giustizia.
Art.7
Lo scrutinio generale dei voti sarà fatto dalla indicata Suprema Corte. Il Presidente di essa annunzierà il risultato del detto scrutinio generale da una tribuna che verrà collocata nella Piazza di S. Francesco di Paola.
Art.8
Per la città di Napoli la votazione si farà presso ciascuna della dodici sezioni, nelle quali è divisa la Capitale. La Giunta di ogni sezione sarà composta dal Giudice di Circondario presidente, dall’Eletto e da due Decurioni all’uopo delegati dal Sindaco. Saranno applicate per la città di Napoli tutte le regole stabilite per gli altri Comuni, in quanto alla formazione delle liste ed alla discussione dei reclami.
Art.9
I Ministri sono incaricati della esecuzione. “
Ministro dell’Interno
Raffaele Conforti
8 ottobre 1860