Il condottiero più famoso dell’esercito borbonico fu Ferdinando Beneventano Del Bosco (Palermo 3.3.1813 – Napoli 8.1.1881). Fuori della cerchia degli addetti ai lavori non lo conosce nessuno, come nessuno conosce Von Mechel, l’altro soldato che si distinse nella guerra contro l’invasione sabauda del 1860.
Ferdinando Beneventano del Bosco fu l’eroe capace di trascinare i soldati al combattimento e alla vittoria. Per la fortuna del più famoso eroe di Caprera, non raggiunse mai i vertici dell’esercito, riservato a nobili demotivati e senza competenze, molti dei quali si rivelarono addirittura traditori.
Nato a Palermo da Aloisio Beneventano dei baroni del Bosco, una antica famiglia siracusana e da Marianna Roscio, era stato ammesso a corte nel 1821 come paggio di Ferdinando I e nel 1829 frequentò la scuola militare distinguendosi per le sue capacità militari e organizzative. Di converso il carattere estremamente orgoglioso e collerico, unita ad una sorda avversione per i cortigiani, ne bloccarono la carriera e non sopportava i suoi superiori.
Aveva un canale diretto con il gabinetto del Re con il quale comunicava scavalcando ì superiori, verso i quali non mancava di formulare giudizi al vetriolo. Se Del Bosco ebbe difficoltà con i superiori per il suo carattere, non ebbe mai problemi con i suoi soldati che stravedevano per lui e ne ebbero sempre cieca fiducia. Per il re e per i borbonici era un eroe ed è facile comprenderlo nella pochezza che contraddistinse la maggior parte degli alti ufficiali dell’esercito napoletano. Se non altro fu sempre coraggioso e temerario e in lui furono riposte soverchie speranze.
dal milanese Agostino Bertani, partirono ben 21 spedizioni. Il 10 giugno a favore di Garibaldi, arrivò in Sicilia anche Giacomo Medici, che si era dimostrato un valente soldato nella difesa della Repubblica Romana, uno dei pochi che dava del tu a Garibaldi. Non venne da solo, con lui vennero altri 2500 volontari armati con moderni fucili a canna rigata. Garibaldi così rinforzato poteva continuare ad avanzare. Per arginarlo e bloccarlo nell’isola, fu inviata una brigata al comando di Del Bosco. Il 13 giugno 1860 il borbonico uscì da Messina e attestò nella piana di Milazzo per fronteggiare gli invasori. I garibaldini non si fecero intimidire dalla presenza dei soldati borbonici, prima perché volevano prendere Messina quanto prima per sbarcare a Reggio, poi perché davano per scontato che il nemico si sarebbe dileguato solo vedendoli ed infine perché numericamente erano il doppio, e non si trattava più solo di volontari, ma in molti casi di soldati regolari piemontesi.
I primi assaggi di fuoco si ebbero quasi subito, ma la battaglia fu combattuta fra il 17 e il 24 luglio 1860, quando Giuseppe Garibaldi, con il suo “esercito meridionale”, sconfissero i borbonici. I napoletani disponevano di circa 4000 uomini, i garibaldini oltre 6000. Ma non fu una vittoria facile. La prima sorpresa di Garibaldi fu di trovarsi di fronte un esercito motivato e competente. Diversamente da Calatafimi i soldati napoletani erano molto più determinati e con un comandante all’altezza della situazione.
Gli scontri preliminari videro i borbonici e garibaldini combattere corpo a corpo. Dopo una serie di scontri di piccola portata, che vedeva i borbonici vincere ovunque, la battaglia decisiva cominciò all’alba del 20 luglio, al centro della piana di Milazzo.
Del Bosco schierò i suoi uomini su due linee posizionando l’artiglieria in modo da poter effettuare il fuoco incrociato. Si mise al comando della prima linea ad aspettare il nemico. Aspettò poco. Verso le 7 del mattino Garibaldi mosse all’attacco dello schieramento borbonico, tentando uno sfondamento centrale, preceduto da due attacchi laterali contemporanei. Questa manovra non gli riuscì, anzi si tramutò in un vero disastro, nel quale i garibaldini, respinti, subirono gravissime perdite.
Del Bosco, alla testa dei suoi uomini, incurante delle pallottole che gli fischiavano attorno guidò il contrattacco roteando la spada come un guerriero medioevale. I due comandanti, Bosco e Garibaldi combattevano in prima linea a pochi metri uno dall’altro. Garibaldi fu perfino disarcionato ed il provvidenziale soccorso di Missori evitò il peggio. Ormai stavano, nonostante tutto per vincere, ma un colpo di sorpresa – se non di genio – di Garibaldi risolse la situazione. Nelle acque di Milazzo si trovava la nave da guerra borbonica a vapore “Veloce”, una delle più moderne navi da guerra, armata con 10 micidiali cannoni a lunga gittata. Proprio qualche giorno prima era stata ceduta dal disertore capitano borbonico Amilcare Aguissola ai garibaldini e ribattezzata col nome di Tükery, dal nome di un volontario ungherese morto nell’attacco a Palermo. Garibaldi si fece portare sul Tükery e di lì diresse personalmente il fuoco dei dieci cannoni contro il nemico. I borbonici a questo punto furono costretti a ritirarsi nella fortezza di Milazzo.
Quando Garibaldi sbarcò sul continente Del Bosco sostenne che la strategia adatta era quella di bloccarlo nei pressi di Salerno, prima che arrivasse a Napoli: stavolta sembrava che il suo piano fosse stato accolto perché furono inviate due forti brigate al suo comando ed a quello di Von Mechel che guidava i soldati svizzeri dell’esercito napoletano per incontrare Garibaldi sulla piana di Salerno.
Ma all’improvviso quest’ordine fu inspiegabilmente annullato e Garibaldi arrivò tranquillamente a Salerno con una marcia trionfale.
Ammalatosi Del Bosco fu ricoverato a Napoli. Guarito dopo due mesi, Bosco si presentò a Gaeta e la sua sola presenza galvanizzò gli assediati. Dopo la resa seguì Francesco II a Roma, ma per un ennesimo duello fu espulso dallo stato romano a settembre del 1861. In giro per l’Europa del Bosco continuò a organizzare il movimento antiunitario, forte della fama di essere stato uno dei pochi ufficiali borbonici a non essere fuggito dinanzi a Garibaldi.
Si trasferì prima a Trieste, ove nel 1863 tentò di organizzare un corpo di spedizione poi a Madrid, ove continuò a reclutare uomini da inviare nell’Italia meridionale per sostenere il movimento antiunitario poi a Barcellona per un nuovo tentativo di arruolamenti che fallirono per mancanza di denaro. Malato di gotta e sfiduciato perse ogni speranza anche se nell’aprile del 1866 a Palermo si parlava ancora della possibilità di un suo sbarco in Sicilia . Le stesse voci si diffusero nell’aprile e nel maggio del 1870. Ormai era diventato un mito, simbolo ricorrente della rivolta contro il nuovo ordine.
Alla fine tornò a Napoli indisturbato, vecchio e malato e vi morì l’8 gennaio del 1881 all’età di 68 anni.