Il Plebiscito di Annessione del Regno delle Due Sicilie del 21 ottobre 1860

Piazza del Plebiscito – Napoli

Il 3 ottobre 1860, Vittorio Emanuele II, con una tempistica eccezionale perché avveniva immediatamente il giorno dopo l’epica battaglia del Volturno del 1 ottobre e proseguita in parte fino al 2 ottobre 1860, entrò ad Ancona per mettersi alla testa delle sue truppe, 46 battaglioni di 39.000 uomini, in sostanza per poter prendere militarmente possesso del Regno delle Due Sicilie e mettere da parte Garibaldi. In quell’occasione ebbe a proclamare solennemente:
Le mie truppe s’avanzano fra voi per affermare l’ordine: io non vengo ad imporre la mia volontà, ma a rispettare la vostra…” ma Cavour aveva già deciso l’annessione a prescindere se i napoletani la volessero o no, e si dette subito da fare per legalizzare in qualche modo l’illegittima ed illegale invasione di un regno con il quale il Piemonte non aveva mai avuto ufficialmente dissidi né aveva mai dichiarata nessuna ostilità.

Un plebiscito per mascherare l’annessione

Anche questa volta lo strumento utilizzato fu l’indizione dell’ennesimo plebiscito.
L’unica novità, che rendeva ancora di più illegittimo l’utilizzo delle strumento plebiscitario, è che il Regno delle Due Sicilie era quello di un regno legittimo, riconosciuto da tutte le diplomazie mondiali, non c’era stata rivolta di popolo contro il re e quest’ultimo non si era né dimesso né era fuggito col suo patrimonio all’estero ( infatti lo aveva lasciato nel caveau del Banco di Napoli che lo crediate o meno e non gli fu mai restituito, perché la condizione posta dal Piemonte fu quella di riconoscere legittimo l’esito del plebiscito ).
Infatti il plebiscito fu indetto mentre si combatteva ancora e inoltre l’esercito napoletano si preparava a vivere alcune delle sue pagine più gloriose nell’Assedio di Gaeta, contro i garibaldini e soldati piemontesi che questa volta combattevano assieme. Assedio che durò tre mesi mentre i piemontesi pensavano di sgominare i resti dell’esercito duosiciliano alla vigilia del plebiscito che era stato fissato per il 21 ottobre 1860. I fatti non andarono così.

La battaglia di Macerone
Il 20 ottobre 1860, alla vigilia della consultazione, sul valico del Macerone, ci fu l’ennesima battaglia di aggressione: I soldati borbonici erano comandati dal generale Luigi Scotti Douglas e l’esercito piemontese comandato dal generale Enrico Cialdini.

Macerone era un valico sull’Appennino che collegava l’Abruzzo con il Molise dove passava allora la strada che conduceva da Napoli a L’Aquila. I borbonici inferiori di numero persero la battaglia ma consentirono al resto dell’esercito di dirigersi sul Garigliano e a Gaeta.

Il plebiscito

Il Plebiscito era un istituto del Diritto Romano inteso ad interrogare il popolo per conoscerne la volontà su determinate questioni di interesse generale. Infatti la parola deriva dal latino plebiscitum a sua volta derivante dalla fusione delle parole plebs (“plebe, popolo”) e scitum (stabilito, deciso cioè “quello che ha stabilito il popolo”. Caduto in disuso con la fine della Repubblica e l’avvento dell’impero perché da quel momento in poi il popolo non ebbe più voce in capitolo nelle scelte politiche, fu riesumato in Francia da Napoleone III nel 1851 per far convalidare il suo colpo di stato.
Poi il Piemonte se ne servì abbondantemente.
Stupisce, leggendo il decreto di indizione, la velocità dei tempi e delle procedure previste, se si tiene conto che fu indetto in un momento non solo storicamente in preda alle convulsioni della guerra, ma in un paese con poche strade, pochi telegrafi e scarsa rete ferroviaria. Per tempi così ravvicinati, sarebbe occorso un odierno sistema informatico di quelli utilizzati dai moderni ministeri degli interni. In 2/3 giorni si organizzò tutto, si formarono le liste elettorali e si giudicarono i ricorsi. In realtà come per quelli precedenti, il Plebiscito dell’ottobre 1860 per l’annessione al Piemonte, fu una vanagloriosa, aberrante e tragica messinscena per salvare la forma di cui tutti i governanti europei erano ben consapevoli.

Al voto meno del 2% degli aventi diritto
Il Regno delle Due Sicilie contava circa 10 milioni di abitanti, votarono appena un milione e mezzo circa, ma valse a decretare la sua fine. Non bisogna dimenticare che il voto, per stessa disposizione del decreto, non era segreto ma palese: l’elettore doveva ritirare la scheda prendendola da una delle due urne rispettivamente contrassegnate con le scritte Si e No – e quindi deporla nell’urna centrale. I seggi erano presidiati da soldati armati quando non c’erano anche i camorristi; votarono i garibaldini, l’esercito piemontese ed i loro accoliti a piene mani. Non votarono i soldati delle Due Sicilie che difendevano l’antico regno, coloro che non riconoscevano la validità dello strumento giuridico e infine la gran massa del popolo che da quelle cose da “signori” si teneva alla larga. Anche perchè bastava manifestare il desiderio di votare per il mantenimento dello stato dei Borbone per essere arrestati e rinviati a giudizio accusati di voler distruggere la forma di Governo; a volte bastava un semplice sospetto e subire un fermo preventivo per impedire a numerosi cittadini di partecipare a voto.
Così scriveva lo storico lucano Tommaso Pedìo, (Potenza 1917 – Potenza, 2000), un personaggio al quale i Borbone erano tutt’altro che simpatici, noto particolarmente per i suoi studi sul Risorgimento italiano.

La prevista schiacciante vittoria dei SI
La votazione del 21 sancì a grandissima maggioranza dei votanti, l’unione del Regno delle Due Sicilie al regno sabaudo, compresa la Sicilia che aveva dato inizio a quest’amba-aradam proprio per affermare la sua autonomia ed indipendenza. Sulla regolarità della consultazione non é il caso di soffermarci.
Dopo il plebiscito Vittorio Emanuele II il 26 ottobre si incontrò a Teano con Garibaldi per dargli il preavviso del licenziamento, ma lo volle al suo fianco quando fece il suo ingresso ufficiale a Napoli il 7 novembre 1860. In quell’occasione le statue equestri di Ferdinando IV e Carlo di Borbone vennero coperte perché allora non si usava ancora abbatterle Il giorno successivo a Palazzo Reale Garibaldi comunicò ufficialmente i risultati del plebiscito proclamando Vittorio Emanuele II re d’Italia. Il 9 novembre 1860 l’ex dittatore partiva per l’esilio di Caprera.


Questi i risultati:
Napoli: 1.302.064 si, 10.302 no;
Sicilia: 432.053 si, 667 no!

Per solennizzare la vittoria, la piazza antistante la Reggia, una delle piazze più belle d’Italia, fu chiamata, nome che mantiene ancora oggi, “Piazza del Plebiscito”. Sarebbe il caso di cambiare questa toponomastica in omaggio alla rivisitazione storiografica che anche se assume a volte aspetti grotteschi come la c.d. “cancel culture”, in questo caso sarebbe più appropriata che mai. La piazza potrebbe essere intitolata perché no a Ferdinando I, oppure a Ferdinando II e perfino all’ultimo Re di Napoli, Francesco II, il famoso “Franceschiello, così chiamato con disprezzo da molti settentrionali e con affetto dai meridionali e che fra l’altro, ha in corso una procedura per essere dichiarato Beato dalla Chiesa Cattolica.
Nessuno di questi tre re borbonici ha l’onore di avere intitolata neppure un vicolo, mentre abbondano le piazze Garibaldi, le Vie Mazzini eccetera.
Solo a Torre del Greco, mi sembra di ricordare c’è una strada intitolata al Re Ferdinando II di Borbone
Quella di Garibaldi in fondo fu una rivoluzione mancata che ben altri sbocchi avrebbe potuto avere per tutta la Penisola, ma la Storia non é fatta di se e così il 13 febbraio 1861 Francesco II capitolò dopo aver salvato l’onore, almeno quello militare, di un regno crollato sotto la scommessa di un migliaio di persone, impresa resa possibile perché ormai i tempi erano maturi per il cambiamento, altrimenti le camicie rosse sarebbero state ributtate a mare in poche ore. Su questo rapido tracollo si sono fatte molte congetture e divagazioni. Secondo alcuni osservatori dell’epoca, oltre alla determinazione di Cavour, non fu estranea la determinante volontà dell’Inghilterra e quella, seppur in tono ridotto, della Francia, ma anche la speranza che forse le cose potessero cambiare in meglio. Cosa che molti meridionali stanno ancora sperando
21/10/2021

Decreto di indizione del Plebiscito
Art.1
Il Popolo delle Province continentali dell’Italia Meridionale sarà convocato pel dì 21 del corrente mese di Ottobre in Comizi per accettare o rigettare il seguente plebiscito: «Il Popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale e suoi legittimi discendenti.» Il voto sarà espresso per «SI» o per «NO», col mezzo di un bollettino stampato.
Art.2
Sono chiamati a dare il voto tutti i Cittadini che abbiano compiuto gli anni 21 e si trovino nel pieno godimento dei loro diritti civile e politici. Sono esclusi dal dare il voto tutti coloro i quali sono colpiti di condanne siano criminali siano correzionali, per imputazione di frode, di furto, di bancarotta e di falsità. Sono esclusi parimenti coloro i quali per scadenza sono dichiarati falliti.
Art.3
Dal Sindaco di ciascun Comune saranno formate le liste dei votanti ai termini dell’articolo precedente le quali verranno pubblicate ed affisse nei luoghi soliti pel giorno 17 Ottobre. Reclami avverso le dette liste saranno prodotti tra le 24 ore seguenti innanzi al Giudice di Circondario che deciderà inappellabilmente per tutto il dì 19 detto mese.
Art.4
I voti saranno dati e raccolti in ogni Capoluogo di Circondario presso una giunta composta dal Giudice presidente e dai Sindaci dei Comuni del Circondario. Si troveranno nei luoghi destinarti alla votazione su di un apposito banco tre terne, una vuota nel mezzo e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bollettini del «SI» e nell’altra quelli del «NO», che ciascun votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota.
Art.5
Compiuta la votazione invierà immediatamente l’urna dei voti chiusa ed assicurata per mezzo del Giudice suo Presidente, alla Giunta Provinciale.
Art.6
In ogni capoluogo di Provincia vi sarà una Giunta Provinciale composta dal Governatore presidente dal Presidente e Procuratore Generale della Gran Corte Criminale e dal Presidente e Procuratore Regio del Tribunale Civile. Tale Giunta in seduta permanente, procederà allo scrutinio dei voti raccolti nelle Giunte Circondariali e invierà immediatamente il lavoro chiuso e suggellato per mezzo di un agente municipale o di altra persona di sua fiducia al Presidente della Suprema corte di Giustizia.

Art.7
Lo scrutinio generale dei voti sarà fatto dalla indicata Suprema Corte. Il Presidente di essa annunzierà il risultato del detto scrutinio generale da una tribuna che verrà collocata nella Piazza di S. Francesco di Paola.
Art.8

Per la città di Napoli la votazione si farà presso ciascuna della dodici sezioni, nelle quali è divisa la Capitale. La Giunta di ogni sezione sarà composta dal Giudice di Circondario presidente, dall’Eletto e da due Decurioni all’uopo delegati dal Sindaco. Saranno applicate per la città di Napoli tutte le regole stabilite per gli altri Comuni, in quanto alla formazione delle liste ed alla discussione dei reclami.
Art.9

I Ministri sono incaricati della esecuzione. “
Ministro dell’Interno
Raffaele Conforti

8 ottobre 1860

Abolito il Columbus Day, coinvolta e sconvolta la comunità italo-americana

Tenente Colombo

Il Tenente Colombo, con il suo immancabile impermeabile anche quando la temperatura sfiora i 40 gradi all’ombra, e con il suo aspetto fra l’imbranato ed il sardonico, risolve i più intricati casi di omicidio fra gli abitanti della Los Angeles benestante, è fiero della sua discendenza italiana che sbandiera ad ogni pié sospinto. Ora non so quale sarebbe il suo comportamento, ma sicuramente sarebbe sempre lo stesso: orgoglioso della sua discendenza italiana. Perché proprio a Los Angeles, l’11 ottobre scorso, in occasione dell’ ormai discusso Columbus Day, la giornata di festa per ricordare lo scopritore delle Americhe, è avvenuto un fatto grave ed emblematico, un assalto a colpi di vernice rossa come ora ormai è di prassi in omaggio al cosiddetto “Cancel Culture” che ha preso piede nei circoli intellettuali o pseudo tali della classe colta statunitense e che ho preso immediatamente piede fra le classi meno acculturate, come a dire gli estremi si toccano.

La Chiesa di San Pietro a Los Angeles
Interno della Chiesa


La chiesa cattolica italiana di Los Angeles, la Saint Peter Church, la chiesa di San Pietro, è stata imbrattata con della vernice rossa ed è stato messo uno striscione per spiegare il gesto: «Stop colonizing our land», “Finitela di colonizzare la nostra terra“.

Italiani estranei allo sterminio dei nativi
Ma chi è o chi sono gli autori di quest’aggressione che merita una netta condanna, se non altro perché una chiesa è sempre un luogo di pace e fratellanza? Solo un nativo eventualmente avrebbe il discutibile diritto di farlo perchè gli altri, i famosi cow boys del far west, prevalentemente Yankee (cittadini degli Stati Uniti d’America, arrivati prima del 1776), sono stati in assoluto gli sterminatori di tutti gli “indiani” americani.
Il Columbus Day, è, o meglio, era la festa dell’orgoglio degli italoamericani statunitensi che, hanno contribuito in maniera significativa alla crescita e allo sviluppo degli States ed oggi si vedono marchiati come colonizzatori e infatti la ricorrenza è stata cancellata in 25 Stati, diventando la giornata delle popolazioni indigene in quanto Colombo sarebbe uno dei responsabili del massacro dei nativi americani, simbolo della colonizzazione e del razzismo nordamericano.

Assaltata la chiesa cattolica italiana a Los Angeles

Dopo le statue di Cristoforo Colombo ad essere imbrattate di vernice rossa, stavolta è toccato ad una chiesa cattolica italiana, la Chiesa di St Peter a Los Angeles

Una statua di Colombo imbrattata di vernice rossa

L’assalto ad una chiesa italiana, perché è della religione dei “bianchi”, hanno colpito i bianchi sbagliati che da emigranti erano addirittura considerati meno dei nativi e spregiativamente chiamati “ macarones, mangiatori di maccheroni”.

Anche le parole che sono state scritte sulle pareti della chiesa «Land Back», «Usa» e «Stolen Land»: “ridateci la terra che avete rubato”, è fuori posto: Nessun italiano è diventato un farmers negli Usa né un possessore di sterminati “Ranches” depredati ai nativi.

Gli italiani alla guerra di secessione
Gli italiani parteciparono anche alla guerra di Secessione. I soldati borbonici e i garibaldini, entrambi messi alla porta dal nuovo Regno d’Italia, proclamato lo stesso anno in cui scoppiò la guerra di Secessione (1861), si ritrovarono a combattere anche in America su fronti opposti. Il Battaglione Dragoni di Borbone fu inserito nei Cazadores espanoles con circa 300 uomini. Ex soldati borbonici e fuggiaschi dalle Due Sicilie erano in tutte le formazioni militari della Luisiana, come il 10° e il 22° Reggimento, ed anche in formazioni militari di altri stati del sud, reclutati in 3 brigate di Guardia Nazionale con oltre 8000 uomini. Il 10° reggimento fanteria della Luisiana fu immediatamente inviato in Virginia al fronte ed ebbe un ruolo primario nella vittoria confederata di Manassas ove i Nordisti furono battuti.
Diversi furono anche gli Italiani nell’esercito del Nord, in molti casi si trattava di ex-garibaldini come quelli della Garibaldi Guards 39th New York Infantry Regiment. Italiani del Sud contro Italiani del Nord – A Bull Run, il 15 settembre 1862, si scontrarono il 39° reggimento Garibaldi Guard con 68 mazziniani e i borbonici del 10° Reggimento Luisiana. Vinsero i secondi. D’altra parte occorre sottolineare che mentre si combatteva una guerra civile per una giusta causa, l’abolizione della schiavitù, contemporaneamente al Nord continuavano i più efferati massacri contro i nativi.
Chiunque conosce la canzone la celeberrima canzone “Lacreme napulitane” sa la vita dolorosa e faticosa di questi nostri concittadini che lasciarono “casa, patria e onore” per cercare non la fortuna, ma una semplice vita decorosa, sa che di queste lacrime e dolorose vicende è intessuta la via dell’emigrazione italiana.

Fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti. Secondo il censimento ufficiale (U.S.CENSUS Bureau) del 2000, sono quasi 16 milioni (il 5,6%) i cittadini con origine italiana e rappresentano il sesto gruppo etnico.

Richiesta di ripristino del Columbus day

I leader della comunità italoamericana, riuniti a Dallas al Continental Avenue Bridge, dove si svolge di solito la celebrazione del Columbus Day e dell’Italian Festival, hanno chiesto ufficialmente di ripristinare il Columbus Day. Biden ha dato il classico colpo al cerchio ed uno alla botte, riabilitando la giornata per Colombo e rinsaldando il rapporto con gli Italo americani, mantenendo la “giornata degli indigeni”»

Il Columbus day istituito per riparare ad un massacro


Il Columbus day fu istituito dal presidente Benjamin Harrison nel 1892 oltre per ricordare la scoperta fatta dal Cristoforo Colombo anche come segno di pacificazione con l’Italia e la comunità italiana, dopo il linciaggio di 11 italiani a New Orleans, avvenuto il 14 marzo 1891 a New Orleans perché accusati di aver ucciso il capo della polizia.
Fu uno dei più truculenti linciaggi di massa della storia degli Stati Uniti. Gli italiani erano considerati degli incivili e dei mafiosi. Nel 1890 a New Orleans si trovava un cospicuo numero di immigrati: su una popolazione di quasi 274.000 persone, infatti, circa 30.000 erano italiani. La notte del 15 ottobre 1890 il capo della polizia David Hennessy venne colpito da alcuni colpi di fucile mentre tornava a casa. Prima di morire avrebbe detto che erano stati gli italiani. Vennero arrestati 19 italiani, di cui 11 accusati di aver avuto un ruolo diretto nell’omicidio. Gli imputati furono giudicati colpevoli dalla stampa ancor prima del processo con il codazzo delle solite affermazioni denigratorie nei confronti immigrati in generale, tale e quale come avviene oggi. Ma otto degli undici imputati vennero giudicati in tribunale, innocenti. Questo non si poteva accettare ed il sindaco di New Orleans , Joseph Shakespeare, che definì gli italiani «gli individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistono al mondo, peggiori dei neri », dette fuoco alle micce. Una folla inferocita dalle 3.000 alle 20.000 persone secondo le cronache del tempo, assaltò la prigione trucidando gli undici prigionieri.

Dal 1892 grazie al presidente B. Harrison si ricompose la frattura fra la comunità italiana e quella americana che nonostante il cancel culture, continua ancora oggi.

Micco Spadaro, il fotoreporter della Napoli seicentesca

La rivolta di Masaniello

Micco Spadaro, al secolo Domenico Gargiulo (Napoli, 1609/1612 – 1675), è stato il fotoreporter napoletano del 1600, un grande pittore italiano barocco, un paesaggista famoso per aver documentato i tumultuosi avvenimenti della Napoli del XVII secolo (eruzioni, epidemie, la rivolta di Masaniello).

Il soprannome Spadaro con il quale è universalmente conosciuto, è dovuto al mestiere del padre, che era un artigiano di armi bianche ed in particolare le spade e che avrebbe voluto che il figlio facesse lo stesso mestiere. Ma Domenico già da piccolo rivelò la sua bravura nel disegno e a 18 anni salutò il padre e andò a bottega del noto pittore Aniello Falcone. che lo educò al gusto per la rappresentazione dei paesaggi.

La rivolta di Masaniello

Micco Spadaro si dimostrò bravo non solo nel dipingere paesaggi, ma specialmente nella rappresentazione di scene cittadine con grandi masse popolari.

Oltre al dipinto “il Rendimento di grazie dopo la peste del 1656“, conservato nel Museo nazionale di S. Martino e recante la data 1657, è più famoso un secondo, ispirato allo stesso soggetto, raffigurante il Largo Mercatello durante la peste del 1656, anch’esso in S. Martino, con uno svolgimento totalmente diverso.

Nella Peste al largo Mercatello, l’aspetto religioso è in secondo piano, mentre è il dramma della gente che è la protagonista dell’opera.
Tali dipinti, insieme con l’Eruzione del Vesuvio nel 1631 e alla Rivolta di Masaniello del 1647, costituiscono i capisaldi con cui Spadaro eccelle nella rappresentazione storica e cronachistica dei fatti avvenuti a Napoli con una particolare peculiarità nell’affrontare i quadri di storia.

I 10 films che i napoletani dovrebbero vedere almeno una volta

Il Cinema fenomeno da baraccone

Su Napoli esiste una sterminata filmografia che parte dai primi anni del 1900 ed arriva fino ad oggi passando dai film tratti dai libri di Saviano, una parabola completa come dire dalla terra dell’amore a quella che inneggia la camorra per finire al film su Eduardo Scarpetta, “Qui rido io” di L. Martone presentato al Festival di Venezia 2021, 78^ edizione.
Nato come fenomeno di baraccone nelle fiere paesane, il cinema si affermò subito ovunque per la sua capacità di rappresentazione e di far sognare. Una situazione singolare caratteristica dei primi anni dell’invenzione della cinematografia, furono i “cinema ambulanti” che viaggiavano nei paesi dalle feste padronali alle fiere dei mercati, alle ricorrenze nazionali. In queste occasioni si costruivano delle baracche, tendoni da circo o si fittavano sale delle parrocchie. Le sale cinematografiche ancora non esistevano.

In questi cinema improvvisati si proiettavano pellicole varie, spezzoni di vita ordinaria che però facevano molta presa sugli spettatori. Si veda la prima pellicola dei fratelli Lumiere dove gli astanti temettero veramente di essere investiti da una locomotiva. Poi pian piano cominciarono ad essere proiettati film più strutturati che raccontavano storie complete accompagnati dal suono caratteristico del pianoforte ed un imbonitore che leggeva le didascalie per gli analfabeti.
Nel 1915 si gira Assunta Spina, del regista Gustavo Serena tratto dal celebre lavoro di Salvatore di Giacomo ed interpretata dall’altrettanta celebre diva del muto Francesca Bertini che supplisce alla mancanza del suono con una straordinaria forza espressiva. “ La canzone dell’amore” (1930) di Gennaro Righelli, fu il primo film sonoro italiano ad essere distribuito nelle sale, il parlato, dopo un primo periodo di sbandamento dà la svolta decisiva per lo sviluppo della cinematografia. A Napoli per esempio è un fiorire di film tratti dalle sceneggiate, dalle canzoni e dal teatro popolare.


Ne è passata acqua sotto i ponti, ed i film sempre più complessi e dispendiosi, continuano a mandare “messaggi” al mondo, anche quando non dicono niente. Anche quello è un messaggio perché segnala un encefalogramma piatto collettivo.

La selezione dei migliori film napoletani
Qui presentiamo una selezione del borbonico progressista di quei film che meritano di essere visti dai napoletani almeno una volta. Hanno una caratteristica comune, rappresentano la realtà napoletana nei vari contesti in cui si esprimono, ma non indicano soluzioni credibili o accettabili dei problemi che ciascuna pellicola solleva. Il limite forse non è dei films, ma è nostro.
Bisognerà affrettarsi a vederli questi movies, perchè potrebbe succedere, che a seguito di una tendenza che, partita oltreoceano dai talebani dell’intellettualismo occidentale, lentamente, ma con possibili accelerazioni, a cerchi concentrici, possa arrivare anche in Italia. Mi riferisco al cancel culture. Un ultimo esempio che viene dagli States è la rimozione della statua equestre del generale Robert E. Lee, comandante dell’esercito Confederale.
La statua, una scultura equestre, era stata collocata a Richmond in Virginia, come simbolo di riconciliazione fra gli Stati del nord e quelli del sud nel 1890 per suggellare la fine della guerra di Secessione. Ma con gli anni l’originario significato è diventato altro per cui ora è stata rimossa.

La rimozione della statua del Gen. Lee


Per tornare a noi, anche i dieci film che borbonico progressista ha selezionato potrebbero essere rimossi in quanto potrebbero essere ritenuti discriminanti e denigratori del popolo napoletano.

La classifica

Ecco l’opinabile selezione:
1 Le mani sulla città
2 Napoli milionaria
3 l’Oro di Napoli
4 Ricomincio da tre
5 Io speriamo che me la cavo
6 Mi manda Picone
7 Così parlò Bellavista
8 Fortapasc
9 Il camorrista
10 Ferdinando e Carolina

Naturalmente ci sono moltissimi altri film che meritano di essere visti e rivisti, come giusto, per fare un esempio:
Le 4 giornate di Napoli”
“Miseria e Nobiltà”
“Giallo Napoletano”
“La pelle” di L: Cavani dal libro di Malaparte
“Desiderio ‘e sole” con Giacomo Rondinella
“Noi credevamo” di Martone
“Li chiamarono …Briganti” di Pasquale Squitieri
“Zappatore” con Mario Merola

Le mani sulla città

Le mani sulla città
E’ un film del 1963, girato in bianco e nero; regia di Francesco Rosi con Rod Steiger, Guido Alberti, Marcello Cannavale, Alberto Canocchia, Salvo Randone. Narra la speculazione edilizia che travolse l’Italia degli anni 60 con punte massime nella grandi città, specie in quelle meridionali di cui Napoli fu la capolista. Ancora oggi le numerose richieste di condoni edilizi che giacciano negli archivi comunali, risalgono a quel periodo.
E’ la storia del costruttore Edoardo Nottola, fattosi consigliere comunale (di destra) per meglio tutelare i suoi affari. Progetta un nuovo quartiere di Napoli nel cuore della vecchia città. All’avvio del progetto crolla un palazzo con due morti. I consiglieri comunali di sinistra, stanchi della corruzione fanno istituire una commissione d’inchiesta che, come tutte le commissioni d’inchiesta, finisce con un nulla di fatto. Dopo alterni e drammatici intrighi politici, Nottola raggiunge il suo scopo e alla fine riesce ad inaugurare il progetto immobiliare alla presenza di un ministro e di un cardinale, accoppiata immancabile in quel periodo nelle inaugurazioni di tutte le opere che si presupponevano “sociali”. Così Napoli si guadagnò successivamente e realmente le vele di Scampia e la conseguente lacerazione del tessuto urbano e sociale.


Napoli milionaria


Napoli milionaria è un film del 1950 diretto da Eduardo De Filippo e tratto, con opportuni adattamenti, dall’omonima commedia dello stesso Edoardo. Nel cast anche Totò.
Gennaro-Eduardo è un tranviere che viene internato in Germania durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo Napoli stramazza nella miseria e nella disperazione a causa dei bombardamenti alleati. Quando arrivano gli americani una ricchezza, illegale ed effimera travolge la città e alla distruzione fisica, si aggiunge quella morale. La borsa nera in quel periodo raggiunge il suo periodo aureo e la moglie di Gennaro-Eduardo, con l’aiuto di un potente intrallazzatore, che in assenza del marito la corteggia, si arricchisce. Ad adiuvandum il figlio contribuisce al benessere familiare rubando e rivendendo automobili, mentre la figlia se la spassa con i soldati alleati, si spera gratuitamente.
Quando Gennaro, che era da tutti ritenuto morto, ritorna a casa, trova una famiglia diversa, ricca economicamente, ma distrutta moralmente. Al colmo della sciagura si ammala gravemente la figlia minore che ha bisogno di una nuova medicina miracolosa ( la penicillina) che in quel momento è anche assente dal mercato della borsa nera. La situazione si fa drammatica ma a salvare la bimba ci pensa un ragioniere depredato dalla moglie che lo aveva ridotto in povertà vendendogli a caro prezzo alimenti di cui necessitava. Il ragioniere che potrebbe rivalersi chiedendo un prezzo spropositato, come la moglie si aspetta, poiché la bontà degli ultimi non muore mai, invece regala la medicina così la bimba guarisce dopo che “ha da passà a nuttata” mentre il figlio, viene arrestato. Famosa la scena in cui Totò si finge morto per evitare l’ispezione della polizia al letto su cui giace come cadavere, sotto il quale c’è tutto un supermercato di alimenti illegali.
Il film ebbe un successo clamoroso, maggiormente all’estero, dagli Usa all’Unione sovietica, mentre in Italia fu stroncato per aver “diffamato” Napoli ed i Napoletani.

l’Oro di Napoli
Qual’ è l’oro di Napoli? Certamente quello che sta nelle gioiellerie, nei caveaux delle banche, nella cripta del tesoro di San Gennaro, ma il vero Oro di Napoli così come lo descrisse Giuseppe Marotta, uno scrittore verace napoletano che invito a rileggere ( o a leggere se non l’avete mai fatto), è la rappresentazione della “napoletanità” a tutto tondo sulla quale si sono espressi antropologi, sociologi e perfino uomini politici, capendone poco o niente, mentre scrittori come Marotta, Di Giacomo e Curzio Malaparte, che ci rappresentano l’altra parte della medaglia, lo hanno fatto più icasticamente.
L’oro di Napoli è un film a episodi del 1954 tratti dal libro omonimo di Giuseppe Marotta, diretto da Vittorio De Sica con Eduardo De Filippo, Totò, Sophia Loren, Paolo Stoppa, Silvana Mangano Gli episodi, tutti ambientati a Napoli. Il primo, Il guappo, ha per protagonista Totò nei panni di un pazzariello vessato da un caporione installatosi in casa sua. Segue Pizze a credito, interpretato da Sophia Loren: un’avvenente pizzaiola che tradisce il marito e perde l’anello di fidanzamento, forse nell’impasto di una delle pizze vendute. Il funeralino (tagliato in alcune versioni) racconta del funerale di un bambino fatto passare attraverso le vie della città. I giocatori sono il conte Prospero (Vittorio De Sica) e il figlio di otto anni del portiere: il nobile, interdetto al gioco dalla moglie, si sfoga con estenuanti partite a scopa. Teresa (Silvana Mangano) è una ex prostituta che cerca di cambiare vita grazie al matrimonio. L’ultimo episodio, Il professore: il protagonista interpretato da Eduardo De Filippo, che consiglia la gente è l’episodio della pernacchia, incineritrice di tutte le albagie e snobismi vari. Per dire quella che si sarebbe meritata il marchese della celebre poesia di Antonio De Curtis: “ A livella”.

Ricomincio da tre


E il film che più di tutto ha inciso nella svolta cinematografica della comicità napoletana. E’ il testimone di Totò che finalmente viene raccolto da qualcuno degno del grande principe.
Il film del 1981 è stato scritto diretto ed interpretato da Massimo Troisi, aiutato nella sceneggiatura da Anna Pavigliano. Ebbe subito un immediato ed imprevisto successo, non solo in Campania, come era prevedibile, ma in tutt’Italia. A fianco di Troisi troviamo Lello Arena, Renato Scarpa, il mitico Robertino e Fiorenza Marcheggiani, la protagonista femminile. Non stupisce che nel film d’esordio, ma anche in quelli successivi, non ci sia mai una particina per Enzo Decaro, il “bello” del gruppo cabarettistico de “La Smorfia”, i cui rapporti artistici e personali si erano andati via via deteriorandosi.
Il Gaetano del film è un ragazzo che decide di andare all’estero, cioè Firenze, per iniziare la vita non d’accapo, ma da tre, perché fino ad allora un paio di cose buone comunque lui riteneva di averle fatte. A Firenze trova un lavoro (?) ma sicuramente l’amore, incarnato nella infermiera aspirante scrittrice Marta. La trama è molto avanzata rispetto agli anni 80 in cui la pellicola venne girata e forse, diluita fra lo schioppiettare delle gags, non tutti ne hanno afferrato il senso. In sostanza, Marta è si innamorata di Gaetano, ma comunque lo ha tradito e del figlio che sta per nascere non sa addirittura a chi attribuirne la paternità. Allora non si facevano ancora le prove del DNA. Di fronte a questa rivelazione Gaetano si mette a disquisire filosoficamente sul nome da dare al nascituro, se Ciro o Massimiliano. Come a dire che per amore si deve accettare tutto.

Forte la scena iniziale che attira subito lo spettatore inchiodandolo alla poltrona. E’ quella nella quale Lello Arena chiama Troisi per farlo scendere di casa, svegliando tutto il quartiere e disturbando perfino il telecronista del Tg. Oggi una scena del genere probabilmente non ci sarebbe stata, perché Lello Arena avrebbe inviato un semplice whatsap.

Io speriamo che me la cavo


Io speriamo che me la cavo” è un altro bel film di Lina Wertmüller, girato nel 1992 e tratto dall’omonimo libro di Marcello D’Orta, interpretato da Paolo Villaggio, con una bravissima Isa Danieli che interpreta magistralmente la direttrice scolastica. Il maestro elementare Marco Tullio Sperelli viene trasferito per errore alla scuola De Amicis di Corzano, diroccato comune del napoletano, anziché a Corsano, nella sua Liguria. In realtà Corzano è un comune della provincia di Brescia e Corsano si trova invece nella provincia di Lecce anche se esiste un antico borgo di Corsano frazione di Montecalvo Irpino . Licenze poetiche sulle quali nessuno, neppure i comuni interessati, si sono soffermati più di tanto.

Villaggio che questa volta esce dai panni ormai stretti e logori del Rag Fantozzi, senza il mitico Rag Filini, si trova sbattuto in una scuola di frontiera nel napoletano dove giustamente i ragazzi impareranno quello che faranno da grande. Cioè una vita border line. Alcuni effetti sono caricaturali e caricati . E’ difficile stabilire dove finisce il luogo comune e dove inizia una realtà immutabile. Fatto è che il maestro Fantozzi, dopo aver cercato di riportare un po’ di ordine pedagogico nella sua scuola appena riceve il trasferimento nella sua tranquilla patria, afferra il primo treno e se ne scappa via. Questa è la realtà e la morale del film. Il pubblico si è divertito molto. Come si diceva una volta Castigat ridendo mores (correggere i costumi facendo ridere). Ma mi sa che anche questa volta lo sforzo è andato sprecato.

Fortapàsc


Gli ultimi giorni di un eroe moderno, spesso dimenticato. Marco Risi nel 2009 mette in scena la vita di Giancarlo Siani, giornalista del Mattino freddato dalla camorra a causa delle sue indagini che hanno messo in luce la collusione tra la classe politica del napoletano e i clan locali. Drammatico intreccio dei destini. Libero De Rienzo, l’attore che interpretò Siani, anche lui napoletano, nacque a Napoli, 24 febbraio 1977, è stato trovato morto improvvisamente il 15 luglio 2021 nella sua casa di Roma, stroncato all’età di 44 anni.
Fortapasc che riecheggia volutamente il titolo dell’epico film western “Il massacro di Forte Apache” è un film che narra la storia di un giovane che pensa di contribuire a liberare delle zone vesuviane dalle angherie e dal malaffare con la sua penna. Lui viene sconfitto e ci lascia la pelle, La scena del Consiglio comunale si ispira a quella del film “Le mani sulla città”.

Il Camorrista

Il camorrista è un film del 1986 diretto da Giuseppe Tornatore, liberamente tratto dal romanzo di Giuseppe Marrazzo, narra l’epopea di Raffaele Cutolo, finito in galera per aver ucciso un giovane che aveva osato infastidire sua sorella Rosaria e diventando il leader indiscusso della malavita napoletana, l’organizzatore della Nuova Camorra Organizzata, che negli anni 70′ si è lasciata alle spalle centinaia di cadaveri nella guerra fra storici clan di Napoli. Il film ripercorre la carriera di Cutolo dalle origini, partendo dal periodo passato nel carcere di Poggioreale dal 1963. Divenuto il boss del carcere, durante gli anni di piombo diventa un interlocutore della politica: tratta per conto dello Stato con le Brigate Rosse per la liberazione di un influente assessore regionale campano. Trattativa che gli stessi esponenti politici si erano rifiutati di fare nel caso di Moro. Il professore riesce ad accordarsi con i terroristi e ad ottenere la sua liberazione, ma i politici e i servizi deviati, che gli avevano promesso soldi e semilibertà, lo scaricano subito, finendo i suoi anni in galera ed i suoi tentativi di vendicarsi con la politica cadono nel vuoto del disinteresse generale. Fra gli attori c’è il bravissimo Leo Gullotta nei panni del Commissario Iervolino, che fu premiato col David di Donatello.

Così parlò Bellavista

Il film Così parlò Bellavista, del 1984 diretto ed interpretato da Luciano De Crescenzo, adattamento del suo primo fortunato romanzo. Intendiamoci, è un godibile film di luoghi comuni sul napoletano approssimativo ma creativo e sul milanese, algido e preciso. Su questa scia anni dopo si inserirà il film “Benvenuto al Sud”. Nel cast Isa Danieli, Marina Confalone, Renato Scarpa, Geppy Gleijeses, Riccardo Pazzaglia.

Lo scontro fra Gennaro Bellavista, ex professore di filosofia in pensione che passa il tempo ad rielaborare le teorie filosofiche antiche da sottoporre agli amici, con “l’uomo milanese”, il dottor Cazzaniga, uomo dedito al lavoro e alla disciplina, non dice niente di nuovo, né costituisce una novità l’ eterna riproposizione della diversità tra i napoletani “uomini d’amore” e i milanesi “uomini di libertà”. Ad esempio, gli amici del professore non si spiegano come mai Cazzaniga, nonostante sia il direttore del personale dell’Alfa Sud, va al lavoro di mattina presto, invece di presentarsi, come sarebbe giusto, verso mezzogiorno… Ci sono tuttavia in questo contesto di stereotipi, una serie di gags assolutamente nuove ed esilaranti che riscattano l’ovvietà. Insomma il film è una pausa rilassante fra le intossicazioni della vita quotidiana. Però se vogliamo fare i filosofi fino in fondo, in realtà il film è l’ennesimo racconto di una sconfitta, perché la figlia dei Prof Bellavista, col marito aiutati dal Dr Cazzaniga non trovano di meglio che emigrare a Milano come migliaia di altri napoletani, meno fortunati di loro perché non c’è stato nessun Cazzaniga ad aiutarli.

Ferdinando e Carolina


Diciamolo subito, la Wertmuller si poteva impegnare di più. Il suo film è appena un poco sopra a quello precedente di Ferdinando I° re di Napoli del 1959 di Gianni Franciolini, una farsa pura e semplice che inaugura il filone della filmografia italiana antiborbonica che ancora non è terminata.
Ferdinando e Carolina è un film del 1999 di Lina Wertuller, narra degli amori giovanili del re, di come si conobbero anche biblicamente e alla fine misero al mondo l’erede maschio, Francesco I. Questa nascita fu la fortuna della dinastia, ma la sfortuna del re perché la moglie, determinata e volitiva con questa nascita entrò di diritto nel Consiglio della Corona , si sbarazzò degli uomini di cui si fidava Ferdinando, come il ministro Tanucci consegnando le chiavi del regno nelle mani dell’inglese Giovanni Acton di cui si mormorava che non ne disprezzasse il talamo. Nel cast Sergio Assisi, Gabriella Pession, Nicole Grimaudo e Mario Scaccia.

Mi manda Picone

E’ un film del 1983 di Nanni Loy con Giancarlo Giannini,Lina Sastri, Carlo Croccolo, Aldo Giuffré, Carlo Taranto, Leo Gullotta. E’ una Napoli così improbabile che può essere vera. In sostanza narra le vicissitudini e il colpo di fortuna di un napoletano lunpemproletariat (proletario straccione) che ovviamente vive di espedienti e che di fronte ha un inaspettato colpo di fortuna sa approfittarne senza titubanze o timori, dimostrando di avere una temerarietà caratteriale che lo avrebbero potuto far diventare un perfetto uomo d’affari, che non capisce niente di cosa si parla, ma che riesce ad abbozzare e a fare, come si dice, “la cosa giusta”.
Picone è un presunto dipendente dell’Italsider che si dà fuoco durante una seduta del consiglio comunale di Napoli per protestare contro il suo licenziamento. Messolo su un’autoambulanza per un ricovero ospedaliero Picone scompare letteralmente nel nulla, non si trova né negli ospedali cittadini né all’obitorio. La moglie giovane ed avvenente spera che Salvatore Cannavacciuolo, un debitore del marito, posa aiutarlo. Cannavacciuolo si dà da fare e, recuperata l’agenda del marito, va a trovare gli individui che si sono segnati e alla semplice frase “mi manda Picone” come si dicesse “apriti sesamo” gli si aprono, tutte le porte fino al finale in cui scopre che il Picone prima della sceneggiata, sotto il vestito aveva una tuta ignifuga. Il che fa pensare che si è trattato di un espediente per togliersi dalla circolazione forse perchè ormai incapace di gestire le intricatissime situazioni in cui si erea abbondantemente cacciato. Ma a Cannavacciuolo questo poco importa, ormai ha un bel mestiere e forse anche una bella amante.

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