I 10 films che i napoletani dovrebbero vedere almeno una volta

Il Cinema fenomeno da baraccone

Su Napoli esiste una sterminata filmografia che parte dai primi anni del 1900 ed arriva fino ad oggi passando dai film tratti dai libri di Saviano, una parabola completa come dire dalla terra dell’amore a quella che inneggia la camorra per finire al film su Eduardo Scarpetta, “Qui rido io” di L. Martone presentato al Festival di Venezia 2021, 78^ edizione.
Nato come fenomeno di baraccone nelle fiere paesane, il cinema si affermò subito ovunque per la sua capacità di rappresentazione e di far sognare. Una situazione singolare caratteristica dei primi anni dell’invenzione della cinematografia, furono i “cinema ambulanti” che viaggiavano nei paesi dalle feste padronali alle fiere dei mercati, alle ricorrenze nazionali. In queste occasioni si costruivano delle baracche, tendoni da circo o si fittavano sale delle parrocchie. Le sale cinematografiche ancora non esistevano.

In questi cinema improvvisati si proiettavano pellicole varie, spezzoni di vita ordinaria che però facevano molta presa sugli spettatori. Si veda la prima pellicola dei fratelli Lumiere dove gli astanti temettero veramente di essere investiti da una locomotiva. Poi pian piano cominciarono ad essere proiettati film più strutturati che raccontavano storie complete accompagnati dal suono caratteristico del pianoforte ed un imbonitore che leggeva le didascalie per gli analfabeti.
Nel 1915 si gira Assunta Spina, del regista Gustavo Serena tratto dal celebre lavoro di Salvatore di Giacomo ed interpretata dall’altrettanta celebre diva del muto Francesca Bertini che supplisce alla mancanza del suono con una straordinaria forza espressiva. “ La canzone dell’amore” (1930) di Gennaro Righelli, fu il primo film sonoro italiano ad essere distribuito nelle sale, il parlato, dopo un primo periodo di sbandamento dà la svolta decisiva per lo sviluppo della cinematografia. A Napoli per esempio è un fiorire di film tratti dalle sceneggiate, dalle canzoni e dal teatro popolare.


Ne è passata acqua sotto i ponti, ed i film sempre più complessi e dispendiosi, continuano a mandare “messaggi” al mondo, anche quando non dicono niente. Anche quello è un messaggio perché segnala un encefalogramma piatto collettivo.

La selezione dei migliori film napoletani
Qui presentiamo una selezione del borbonico progressista di quei film che meritano di essere visti dai napoletani almeno una volta. Hanno una caratteristica comune, rappresentano la realtà napoletana nei vari contesti in cui si esprimono, ma non indicano soluzioni credibili o accettabili dei problemi che ciascuna pellicola solleva. Il limite forse non è dei films, ma è nostro.
Bisognerà affrettarsi a vederli questi movies, perchè potrebbe succedere, che a seguito di una tendenza che, partita oltreoceano dai talebani dell’intellettualismo occidentale, lentamente, ma con possibili accelerazioni, a cerchi concentrici, possa arrivare anche in Italia. Mi riferisco al cancel culture. Un ultimo esempio che viene dagli States è la rimozione della statua equestre del generale Robert E. Lee, comandante dell’esercito Confederale.
La statua, una scultura equestre, era stata collocata a Richmond in Virginia, come simbolo di riconciliazione fra gli Stati del nord e quelli del sud nel 1890 per suggellare la fine della guerra di Secessione. Ma con gli anni l’originario significato è diventato altro per cui ora è stata rimossa.

La rimozione della statua del Gen. Lee


Per tornare a noi, anche i dieci film che borbonico progressista ha selezionato potrebbero essere rimossi in quanto potrebbero essere ritenuti discriminanti e denigratori del popolo napoletano.

La classifica

Ecco l’opinabile selezione:
1 Le mani sulla città
2 Napoli milionaria
3 l’Oro di Napoli
4 Ricomincio da tre
5 Io speriamo che me la cavo
6 Mi manda Picone
7 Così parlò Bellavista
8 Fortapasc
9 Il camorrista
10 Ferdinando e Carolina

Naturalmente ci sono moltissimi altri film che meritano di essere visti e rivisti, come giusto, per fare un esempio:
Le 4 giornate di Napoli”
“Miseria e Nobiltà”
“Giallo Napoletano”
“La pelle” di L: Cavani dal libro di Malaparte
“Desiderio ‘e sole” con Giacomo Rondinella
“Noi credevamo” di Martone
“Li chiamarono …Briganti” di Pasquale Squitieri
“Zappatore” con Mario Merola

Le mani sulla città

Le mani sulla città
E’ un film del 1963, girato in bianco e nero; regia di Francesco Rosi con Rod Steiger, Guido Alberti, Marcello Cannavale, Alberto Canocchia, Salvo Randone. Narra la speculazione edilizia che travolse l’Italia degli anni 60 con punte massime nella grandi città, specie in quelle meridionali di cui Napoli fu la capolista. Ancora oggi le numerose richieste di condoni edilizi che giacciano negli archivi comunali, risalgono a quel periodo.
E’ la storia del costruttore Edoardo Nottola, fattosi consigliere comunale (di destra) per meglio tutelare i suoi affari. Progetta un nuovo quartiere di Napoli nel cuore della vecchia città. All’avvio del progetto crolla un palazzo con due morti. I consiglieri comunali di sinistra, stanchi della corruzione fanno istituire una commissione d’inchiesta che, come tutte le commissioni d’inchiesta, finisce con un nulla di fatto. Dopo alterni e drammatici intrighi politici, Nottola raggiunge il suo scopo e alla fine riesce ad inaugurare il progetto immobiliare alla presenza di un ministro e di un cardinale, accoppiata immancabile in quel periodo nelle inaugurazioni di tutte le opere che si presupponevano “sociali”. Così Napoli si guadagnò successivamente e realmente le vele di Scampia e la conseguente lacerazione del tessuto urbano e sociale.


Napoli milionaria


Napoli milionaria è un film del 1950 diretto da Eduardo De Filippo e tratto, con opportuni adattamenti, dall’omonima commedia dello stesso Edoardo. Nel cast anche Totò.
Gennaro-Eduardo è un tranviere che viene internato in Germania durante la seconda guerra mondiale. In quel periodo Napoli stramazza nella miseria e nella disperazione a causa dei bombardamenti alleati. Quando arrivano gli americani una ricchezza, illegale ed effimera travolge la città e alla distruzione fisica, si aggiunge quella morale. La borsa nera in quel periodo raggiunge il suo periodo aureo e la moglie di Gennaro-Eduardo, con l’aiuto di un potente intrallazzatore, che in assenza del marito la corteggia, si arricchisce. Ad adiuvandum il figlio contribuisce al benessere familiare rubando e rivendendo automobili, mentre la figlia se la spassa con i soldati alleati, si spera gratuitamente.
Quando Gennaro, che era da tutti ritenuto morto, ritorna a casa, trova una famiglia diversa, ricca economicamente, ma distrutta moralmente. Al colmo della sciagura si ammala gravemente la figlia minore che ha bisogno di una nuova medicina miracolosa ( la penicillina) che in quel momento è anche assente dal mercato della borsa nera. La situazione si fa drammatica ma a salvare la bimba ci pensa un ragioniere depredato dalla moglie che lo aveva ridotto in povertà vendendogli a caro prezzo alimenti di cui necessitava. Il ragioniere che potrebbe rivalersi chiedendo un prezzo spropositato, come la moglie si aspetta, poiché la bontà degli ultimi non muore mai, invece regala la medicina così la bimba guarisce dopo che “ha da passà a nuttata” mentre il figlio, viene arrestato. Famosa la scena in cui Totò si finge morto per evitare l’ispezione della polizia al letto su cui giace come cadavere, sotto il quale c’è tutto un supermercato di alimenti illegali.
Il film ebbe un successo clamoroso, maggiormente all’estero, dagli Usa all’Unione sovietica, mentre in Italia fu stroncato per aver “diffamato” Napoli ed i Napoletani.

l’Oro di Napoli
Qual’ è l’oro di Napoli? Certamente quello che sta nelle gioiellerie, nei caveaux delle banche, nella cripta del tesoro di San Gennaro, ma il vero Oro di Napoli così come lo descrisse Giuseppe Marotta, uno scrittore verace napoletano che invito a rileggere ( o a leggere se non l’avete mai fatto), è la rappresentazione della “napoletanità” a tutto tondo sulla quale si sono espressi antropologi, sociologi e perfino uomini politici, capendone poco o niente, mentre scrittori come Marotta, Di Giacomo e Curzio Malaparte, che ci rappresentano l’altra parte della medaglia, lo hanno fatto più icasticamente.
L’oro di Napoli è un film a episodi del 1954 tratti dal libro omonimo di Giuseppe Marotta, diretto da Vittorio De Sica con Eduardo De Filippo, Totò, Sophia Loren, Paolo Stoppa, Silvana Mangano Gli episodi, tutti ambientati a Napoli. Il primo, Il guappo, ha per protagonista Totò nei panni di un pazzariello vessato da un caporione installatosi in casa sua. Segue Pizze a credito, interpretato da Sophia Loren: un’avvenente pizzaiola che tradisce il marito e perde l’anello di fidanzamento, forse nell’impasto di una delle pizze vendute. Il funeralino (tagliato in alcune versioni) racconta del funerale di un bambino fatto passare attraverso le vie della città. I giocatori sono il conte Prospero (Vittorio De Sica) e il figlio di otto anni del portiere: il nobile, interdetto al gioco dalla moglie, si sfoga con estenuanti partite a scopa. Teresa (Silvana Mangano) è una ex prostituta che cerca di cambiare vita grazie al matrimonio. L’ultimo episodio, Il professore: il protagonista interpretato da Eduardo De Filippo, che consiglia la gente è l’episodio della pernacchia, incineritrice di tutte le albagie e snobismi vari. Per dire quella che si sarebbe meritata il marchese della celebre poesia di Antonio De Curtis: “ A livella”.

Ricomincio da tre


E il film che più di tutto ha inciso nella svolta cinematografica della comicità napoletana. E’ il testimone di Totò che finalmente viene raccolto da qualcuno degno del grande principe.
Il film del 1981 è stato scritto diretto ed interpretato da Massimo Troisi, aiutato nella sceneggiatura da Anna Pavigliano. Ebbe subito un immediato ed imprevisto successo, non solo in Campania, come era prevedibile, ma in tutt’Italia. A fianco di Troisi troviamo Lello Arena, Renato Scarpa, il mitico Robertino e Fiorenza Marcheggiani, la protagonista femminile. Non stupisce che nel film d’esordio, ma anche in quelli successivi, non ci sia mai una particina per Enzo Decaro, il “bello” del gruppo cabarettistico de “La Smorfia”, i cui rapporti artistici e personali si erano andati via via deteriorandosi.
Il Gaetano del film è un ragazzo che decide di andare all’estero, cioè Firenze, per iniziare la vita non d’accapo, ma da tre, perché fino ad allora un paio di cose buone comunque lui riteneva di averle fatte. A Firenze trova un lavoro (?) ma sicuramente l’amore, incarnato nella infermiera aspirante scrittrice Marta. La trama è molto avanzata rispetto agli anni 80 in cui la pellicola venne girata e forse, diluita fra lo schioppiettare delle gags, non tutti ne hanno afferrato il senso. In sostanza, Marta è si innamorata di Gaetano, ma comunque lo ha tradito e del figlio che sta per nascere non sa addirittura a chi attribuirne la paternità. Allora non si facevano ancora le prove del DNA. Di fronte a questa rivelazione Gaetano si mette a disquisire filosoficamente sul nome da dare al nascituro, se Ciro o Massimiliano. Come a dire che per amore si deve accettare tutto.

Forte la scena iniziale che attira subito lo spettatore inchiodandolo alla poltrona. E’ quella nella quale Lello Arena chiama Troisi per farlo scendere di casa, svegliando tutto il quartiere e disturbando perfino il telecronista del Tg. Oggi una scena del genere probabilmente non ci sarebbe stata, perché Lello Arena avrebbe inviato un semplice whatsap.

Io speriamo che me la cavo


Io speriamo che me la cavo” è un altro bel film di Lina Wertmüller, girato nel 1992 e tratto dall’omonimo libro di Marcello D’Orta, interpretato da Paolo Villaggio, con una bravissima Isa Danieli che interpreta magistralmente la direttrice scolastica. Il maestro elementare Marco Tullio Sperelli viene trasferito per errore alla scuola De Amicis di Corzano, diroccato comune del napoletano, anziché a Corsano, nella sua Liguria. In realtà Corzano è un comune della provincia di Brescia e Corsano si trova invece nella provincia di Lecce anche se esiste un antico borgo di Corsano frazione di Montecalvo Irpino . Licenze poetiche sulle quali nessuno, neppure i comuni interessati, si sono soffermati più di tanto.

Villaggio che questa volta esce dai panni ormai stretti e logori del Rag Fantozzi, senza il mitico Rag Filini, si trova sbattuto in una scuola di frontiera nel napoletano dove giustamente i ragazzi impareranno quello che faranno da grande. Cioè una vita border line. Alcuni effetti sono caricaturali e caricati . E’ difficile stabilire dove finisce il luogo comune e dove inizia una realtà immutabile. Fatto è che il maestro Fantozzi, dopo aver cercato di riportare un po’ di ordine pedagogico nella sua scuola appena riceve il trasferimento nella sua tranquilla patria, afferra il primo treno e se ne scappa via. Questa è la realtà e la morale del film. Il pubblico si è divertito molto. Come si diceva una volta Castigat ridendo mores (correggere i costumi facendo ridere). Ma mi sa che anche questa volta lo sforzo è andato sprecato.

Fortapàsc


Gli ultimi giorni di un eroe moderno, spesso dimenticato. Marco Risi nel 2009 mette in scena la vita di Giancarlo Siani, giornalista del Mattino freddato dalla camorra a causa delle sue indagini che hanno messo in luce la collusione tra la classe politica del napoletano e i clan locali. Drammatico intreccio dei destini. Libero De Rienzo, l’attore che interpretò Siani, anche lui napoletano, nacque a Napoli, 24 febbraio 1977, è stato trovato morto improvvisamente il 15 luglio 2021 nella sua casa di Roma, stroncato all’età di 44 anni.
Fortapasc che riecheggia volutamente il titolo dell’epico film western “Il massacro di Forte Apache” è un film che narra la storia di un giovane che pensa di contribuire a liberare delle zone vesuviane dalle angherie e dal malaffare con la sua penna. Lui viene sconfitto e ci lascia la pelle, La scena del Consiglio comunale si ispira a quella del film “Le mani sulla città”.

Il Camorrista

Il camorrista è un film del 1986 diretto da Giuseppe Tornatore, liberamente tratto dal romanzo di Giuseppe Marrazzo, narra l’epopea di Raffaele Cutolo, finito in galera per aver ucciso un giovane che aveva osato infastidire sua sorella Rosaria e diventando il leader indiscusso della malavita napoletana, l’organizzatore della Nuova Camorra Organizzata, che negli anni 70′ si è lasciata alle spalle centinaia di cadaveri nella guerra fra storici clan di Napoli. Il film ripercorre la carriera di Cutolo dalle origini, partendo dal periodo passato nel carcere di Poggioreale dal 1963. Divenuto il boss del carcere, durante gli anni di piombo diventa un interlocutore della politica: tratta per conto dello Stato con le Brigate Rosse per la liberazione di un influente assessore regionale campano. Trattativa che gli stessi esponenti politici si erano rifiutati di fare nel caso di Moro. Il professore riesce ad accordarsi con i terroristi e ad ottenere la sua liberazione, ma i politici e i servizi deviati, che gli avevano promesso soldi e semilibertà, lo scaricano subito, finendo i suoi anni in galera ed i suoi tentativi di vendicarsi con la politica cadono nel vuoto del disinteresse generale. Fra gli attori c’è il bravissimo Leo Gullotta nei panni del Commissario Iervolino, che fu premiato col David di Donatello.

Così parlò Bellavista

Il film Così parlò Bellavista, del 1984 diretto ed interpretato da Luciano De Crescenzo, adattamento del suo primo fortunato romanzo. Intendiamoci, è un godibile film di luoghi comuni sul napoletano approssimativo ma creativo e sul milanese, algido e preciso. Su questa scia anni dopo si inserirà il film “Benvenuto al Sud”. Nel cast Isa Danieli, Marina Confalone, Renato Scarpa, Geppy Gleijeses, Riccardo Pazzaglia.

Lo scontro fra Gennaro Bellavista, ex professore di filosofia in pensione che passa il tempo ad rielaborare le teorie filosofiche antiche da sottoporre agli amici, con “l’uomo milanese”, il dottor Cazzaniga, uomo dedito al lavoro e alla disciplina, non dice niente di nuovo, né costituisce una novità l’ eterna riproposizione della diversità tra i napoletani “uomini d’amore” e i milanesi “uomini di libertà”. Ad esempio, gli amici del professore non si spiegano come mai Cazzaniga, nonostante sia il direttore del personale dell’Alfa Sud, va al lavoro di mattina presto, invece di presentarsi, come sarebbe giusto, verso mezzogiorno… Ci sono tuttavia in questo contesto di stereotipi, una serie di gags assolutamente nuove ed esilaranti che riscattano l’ovvietà. Insomma il film è una pausa rilassante fra le intossicazioni della vita quotidiana. Però se vogliamo fare i filosofi fino in fondo, in realtà il film è l’ennesimo racconto di una sconfitta, perché la figlia dei Prof Bellavista, col marito aiutati dal Dr Cazzaniga non trovano di meglio che emigrare a Milano come migliaia di altri napoletani, meno fortunati di loro perché non c’è stato nessun Cazzaniga ad aiutarli.

Ferdinando e Carolina


Diciamolo subito, la Wertmuller si poteva impegnare di più. Il suo film è appena un poco sopra a quello precedente di Ferdinando I° re di Napoli del 1959 di Gianni Franciolini, una farsa pura e semplice che inaugura il filone della filmografia italiana antiborbonica che ancora non è terminata.
Ferdinando e Carolina è un film del 1999 di Lina Wertuller, narra degli amori giovanili del re, di come si conobbero anche biblicamente e alla fine misero al mondo l’erede maschio, Francesco I. Questa nascita fu la fortuna della dinastia, ma la sfortuna del re perché la moglie, determinata e volitiva con questa nascita entrò di diritto nel Consiglio della Corona , si sbarazzò degli uomini di cui si fidava Ferdinando, come il ministro Tanucci consegnando le chiavi del regno nelle mani dell’inglese Giovanni Acton di cui si mormorava che non ne disprezzasse il talamo. Nel cast Sergio Assisi, Gabriella Pession, Nicole Grimaudo e Mario Scaccia.

Mi manda Picone

E’ un film del 1983 di Nanni Loy con Giancarlo Giannini,Lina Sastri, Carlo Croccolo, Aldo Giuffré, Carlo Taranto, Leo Gullotta. E’ una Napoli così improbabile che può essere vera. In sostanza narra le vicissitudini e il colpo di fortuna di un napoletano lunpemproletariat (proletario straccione) che ovviamente vive di espedienti e che di fronte ha un inaspettato colpo di fortuna sa approfittarne senza titubanze o timori, dimostrando di avere una temerarietà caratteriale che lo avrebbero potuto far diventare un perfetto uomo d’affari, che non capisce niente di cosa si parla, ma che riesce ad abbozzare e a fare, come si dice, “la cosa giusta”.
Picone è un presunto dipendente dell’Italsider che si dà fuoco durante una seduta del consiglio comunale di Napoli per protestare contro il suo licenziamento. Messolo su un’autoambulanza per un ricovero ospedaliero Picone scompare letteralmente nel nulla, non si trova né negli ospedali cittadini né all’obitorio. La moglie giovane ed avvenente spera che Salvatore Cannavacciuolo, un debitore del marito, posa aiutarlo. Cannavacciuolo si dà da fare e, recuperata l’agenda del marito, va a trovare gli individui che si sono segnati e alla semplice frase “mi manda Picone” come si dicesse “apriti sesamo” gli si aprono, tutte le porte fino al finale in cui scopre che il Picone prima della sceneggiata, sotto il vestito aveva una tuta ignifuga. Il che fa pensare che si è trattato di un espediente per togliersi dalla circolazione forse perchè ormai incapace di gestire le intricatissime situazioni in cui si erea abbondantemente cacciato. Ma a Cannavacciuolo questo poco importa, ormai ha un bel mestiere e forse anche una bella amante.

La peste a Napoli del 1656 si blocca il giorno dell’Assunta

Micco Spadaro Il Lazzaretto di Piazza Mercatello a Napoli durante la peste

Da quando l’uomo vive in gruppo è stato vittima di malattie infettive. Le cronache storiche segnalano epidemie di vaiolo, di colera, l’influenza spagnola per finire alla pandemia del Corona virus del 2019. La più tremenda delle malattie infettive almeno finora, è stata la peste.
Nel secolo XVII era appena finita l’epidemia della peste del 1630 in Lombardia, che nel 1656 riapparve nel Vicereame spagnolo di Napoli.

Napoli era una delle città più popolate d’Europa, con più di 450.00 abitanti e una densità altissima. In concomitanza della peste di Milano nel 1631 ci fu una grande eruzione del Vesuvio che non contribuì a migliorare la situazione, facendo affluire nella città partenopea circa 40.000 sfollati dalle zone circostanti. La città non possedeva ancora un adeguato sistema fognario di acquedotti. Si viveva in precarie condizioni igieniche unite ad altri fattori quali la scarsa e cattiva alimentazione nonché la grande quantità di animali che vivevano in promiscuità con i napoletani.

La peste da Valenza ( Spagna ) sbarca a Napoli
Fra la peste del 1630 a Milano e quella del 1656, a Napoli nel 1647 c’era stata la rivoluzione di Masaniello.
Nello stesso periodo in cui Masaniello dava inizio alla sua rivolta, a Valenza in Spagna cominciarono a morire improvvisamente dei calzolai sui cui cadaveri erano evidenti lividi e bubboni che furono riconosciuti per sintomi inequivocabili della peste. In quattro mesi morirono più di 20.000 persone, vale a dire circa la metà della popolazione di Valenza. Nel 1650 la peste da Valenza al seguito delle milizie spagnole, arrivò in Sardegna e l’Isola fu subito messa in quarantena. Ma fu una quarantena molto elastica con gravi conseguenze per tutti.
La Spagna allora era impegnata con la guerra in Lombardia contro il duca di Modena e raccoglieva soldati da tutti i suoi possedimenti specialmente da quelli stanziati in Sardegna per poi trasferirli sui campi di battaglia. Solo il porto di Napoli era quello maggiormente attrezzato al trasferimento delle truppe, disponendo di numerose e veloci navi per condurre le milizie nei porti della Liguria. Il viceré, che aveva proibito ogni sbarco dalla Sardegna, autorizzò lo sbarco dei soldati, violando le sue stesse disposizioni, ma poiché l’ epidemia non era conclamata e le pressioni da Madrid erano forti, si minimizzò il pericolo. Ma il 12 agosto del 1654 ci fu una quasi completa eclissi del sole e i preti si misero a gridare che questo fenomeno annunciava l’imminente castigo di Dio contro tutti i peccatori perchè la peste era una punizione divina per la rivolta intentata da Masaniello e dal popolo contro il re cattolico.
Il 1656 comincio tranquillamente tanto è vero che quell’anno, dimentichi di tutti di tutto, ci fu il miglior carnevale dell’ultimi anni. Ma alla fine il morbo sbarcò a Napoli. Come leggenda metropolitana si raccontava che un ufficiale ritornato a Napoli dalla Spagna facendo tappa in Sardegna, un certo Masone, essendosi sentito improvvisamente male e portato nell’ospedale dell’Annunziata, era morto in due giorni tutto coperto di lividi e di bubboni. Un congiunto che avrebbe assistito il Masone, morì a casa sua dopo 24 ore nel quartiere del Lavinaio, nei pressi del mercato. Inoltre i funzionari spagnoli che in quel periodo facevano, per fini fiscali, il censimento dei “fuochi”, cioè delle famiglie, notarono che nel quartiere del Lavinaio, i morti erano aumentati in maniera strana. Alla Quaresima l’animo dei napoletani era già mutato perché l’ inspiegabile aumento della mortalità non si fermava, anzi da quel quartiere si spandeva a quelli limitrofi.

I porci di Sant’Antonio Abate portati fuori città
Il viceré, allora per combattere un imprecisato “morbo corrente” in via precauzionale prescrisse di bruciare le suppellettili degli ammalati, togliere l’immondizia dalle strade e portare gli animali fuori città e ci volle un grande coraggio nello stabilire questo, perché allora i monaci di Sant’Antonio Abate possedevano grandi mandrie di porci i quali in virtù della immunità ecclesiastica concessa all’ abate di Sant Antuono, cardinale Barberini, vagavano liberi per tutte le strade della città ricevendo del cibo come atto di devozione del popolo ed erano abbracciati e venerati un po’ come le vacche sacre in India.

Gli untori francesi
Nello stesso periodo i francesi erano tornati a Napoli per cercare di riappropriarsene e si erano fermati a Castellammare in attesa di poter agire. Per sviare l’attenzione la colpa dei decessi fu data ai francesi che spargevano il veleno dappertutto: nell’acqua, nei pozzi, sulle monete e sui banchi delle chiese. Allora bastava avere un accento forestiero o un vestito che sembrava tale per passare i guai, dalle semplici bastonate al libero linciaggio. Insomma cose già descritte nei Promessi Sposi.

Dopo 4 mesi le Autorità ed popolo ancora non volevano arrendersi all’evidenza, ma con l’approssimarsi della stagione estiva i decessi aumentavano smisuratamente e a maggio il viceré dovette dichiarare ufficialmente l’esistenza della peste. Ma invano si cercò di abolire le cerimonie religiose e le processioni, così l’infezione assumeva dimensioni sempre più grandi.

Il DPCM del Viceré ed il Green Pass

Il 16 giugno 1656 furono adottate le prime prescrizioni ufficiali contro la peste.
Per prima cosa bisognava porre sopra ogni porta della città l’immagine della Madonna con il Bambino, sotto San Gennaro, a destra S. Francesco Saverio e a sinistra Santa Rosalia.
In campo più strettamente sanitario fu stabilito:

  1. La chiusura dell’abitazione in cui ci fosse un appestato e messa sotto sorveglianza dall’esterno
  2. I parenti dei defunti dovevano rimanere chiusi in casa in quarantena. Ai beni di prima necessità avrebbero provveduto la municipalità
  3. Bruciare tutte le suppellettili e gli abiti degli appestati
  4. Portare gli ammalati nei lazzaretti approntati fuori le mura per evitare il contatto con il resto della popolazione
  5. Proibito seppellire dentro le Chiese.
  6. Introduzione del green pass che nessuno osava osteggiare, ma che tutti si attrezzavano ad aggirarlo. La delibera della Deputazione della Sanità del 23 maggio del 1656, anteriore a questa ordinava alle guardie delle porte cittadine di “non ammettere persone alcuna di una terra all’altra se non portano i soliti bollettini di salute”, una sorta di Green Pass.

I medici e gli infermieri andavano in giro vestiti con un camicione incerato, sui viso una maschera alla pulcinella nel cui naso c’erano delle erbe medicamentose e avevano una specie di occhialoni. Portavano una lungo bastone per poter tastare i malati a distanza.
Di sera per le strade della città venivano bruciati rami di alloro e rosmarino e grani di incenso per disinfettare l’aria.
Anche i frati ed i preti dettero prova di abnegazione con la loro opera, riscattandosi dalla preventiva azione di demonizzazione e anche qui molti di loro morirono sul campo.
In poco tempo si arrivò al punto che mancarono i mezzi per raccogliere i cadaveri, nessuno voleva farlo e poi non si sapeva dove seppellirli.
Il vicerè mobilitò i soldati spagnoli per scavare delle fosse comuni fuori città e portarvi i cadaveri prelevati dalle case. Ciò dette la stura ad altri abusi da parte della soldataglia, furti estorsioni, ricatti. L’eletto del popolo della deputazione della Sanità, tale Felice Basile, riuscì a far requisire tutte le carrette della città e con l’aiuto di volontari ripulì le strade buttando i corpi in una immensa grotta detta dei Pipistrelli (Sportiglioni in napoletano) e poi nelle altre di cui Napoli sotterranea ne è piena. Oggi i resti di quei poveretti si possono ancora visitare, nel famoso “ Cimitero delle fontanelle”. A luglio l’epidemia raggiunse il punto più alto.

Il 15 Agosto, festa dell’Assunta, la peste frena
Dal caldo torrido di luglio, il tempo ad agosto divenne improvvisamente tempestoso diluviando a dirotto fino al 14 agosto. Le strade di Napoli divennero delle fiumare che trascinavano tutto a mare dalle falde del Vesuvio in giù, la più colossale opera di disinfestazione mai effettuata.
Il 15 agosto, giorno dell’Assunta la peste cominciò a frenare, i contagi a diminuire e gli ammalati a guarire. Scoppiò subito una guerra a chi attribuire questo miracolo. La maggioranza era per la Madonna Assunta, ma c’erano anche nutrite schiere che propendevano anche per San Gaetano che si festeggia il 7 di agosto, a San Francesco Saverio e San Gennaro.
Il trend si mantenne in discesa costante fino a che il giorno 8 dicembre festa dell’Immacolata, Napoli fu dichiarata libera dalla pestilenza. La peste aveva provocato circa 200 000 morti; anche nel resto del regno il tasso di mortalità fu altissimo. Alcuni villaggi furono completamente distrutti.

Il fotoreporter di questa calamità, fu il pittore Micco Spadaro, al secolo Domenico Gargiulo (Napoli, 1609/1612 – 1675), famoso soprattutto per aver documentato i tumultuosi avvenimenti della Napoli del XVII secolo (l’eruzione del Vesuvio , la rivolta di Masaniello e la peste).

Per una conoscenza più dettagliata di questa peste si consiglia di leggere Salvatore De Renzi “ Napoli nell’anno 1656” Tip. De Pascale Napoli – 1867, che è stata una delle fonti primaria da cui sono tratte queste note – reperibile su Google Book.

Le piccionaie borboniche, meravigliosi monumenti da visitare

La colombaia di Otranto – Ipogeo di Torre Pinta

Il territorio italiano, specie in Puglia e segnalatamente nel salentino, è puntellato da strani edifici circolari o quadrati che sembrano delle torri di vedetta, ma la loro funzione è completamente diversa, il che non esclude che qualche volta fossero utilizzate per scopi bellici, anzi.
Si tratta delle “colombaie”, edifici adibiti esclusivamente all’allevamento dei piccioni domestici e dei piccioni viaggiatori.
Le origini di queste costruzioni si perdono nella notte dei tempi ma le prime fonti storiche si trovano nel periodo feudale quando il feudatario misura il suo potere e la sua ricchezza in base ai diritti che gli ha concesso l’imperatore o il suo diretto feudatario superiore. Poteva avere il diritto di imporre decime, di cacciare, di riscuotere tasse e pedaggi, nonché il diritto di allevare colombi. Per questo come elemento di prestigio della casata, si costruivano degli appositi edifici a forma quadrata o rotonda, con tante finestrelle allineate dove nidificavano i volatili e a fianco fori più piccoli, per l’allevamento di passeri e rondini, oggetto essi pure di geloso diritto.
Il piccione domestico era utile per le sue carni e per le deiezioni che servivano per concimare i campi. A fianco di questi piccioni c’erano i piccioni viaggiatori, oggetti di una cura ancora maggiore.
ll piccione viaggiatore è una varietà del piccione domestico selezionato geneticamente per migliorarne le attitudini. Infatti il piccione viaggiatore ha un innato senso di orientamento che gli permette di tornare al proprio nido sfruttando il fenomeno della magnetoricezione, cioè il senso degli animali di percezione del campo magnetico della Terra, che come una bussola giuda il volatile nella direzione giusta. In alcune competizioni colombofile sono stati registrati voli fino a 1800 km di distanza, ma la loro velocità media in volo su moderate distanze (600 km) è di circa 80 chilometri all’ora. Grazie alle sue capacità di orientamento e di viaggiare lontano, in passato fu utilizzato per portare messaggi (colombigramma) da un luogo all’altro.

Un forte addensamento delle colombaie è reperibile nel Salento Questi volatili costituivano un tassello importante per l’economia salentina, non solo in epoca medievale.
Le torri colombaie sono presenti in quasi tutte le città del Salento e l’Ipogeo di Torre Pinta di Otranto è una delle più belle. In epoca borbonica, invece, il suo uso cambiò radicalmente privilegiando l’utilizzo dei piccioni viaggiatori, il cui utilizzo non si esaurì con l’invenzione del telegrafo, che nel Regno delle Due Sicilie fu introdotto nel 1851, ma continuò per ancora un lungo periodo perché il nuovo sistema di trasmissione, più veloce ed efficiente dei piccioni certamente, si guastavano facilmente oppure le linee erano soggette a sabotaggi.
L’arma usata contro i piccioni viaggiatori furono i falchi.
Ora qualcuno afferma che per sfuggire alle intercettazioni dei propri messaggi e godere veramente di un’autentica privacy, i colombi viaggiatori sono ritornati di moda perché a prova di trojan ed hacker.
La torre colombaia di Otranto come detto è la più bella e la più famosa. La scoperta di questo ipogeo, avvenne solo nell’agosto del 1976
La posizione strategica del sito conferma la supposizione che si trattasse prevalentemente, se non esclusivamente di una base per colombi viaggiatori, al servizio del comando militare borbonico di presidio in Terra d’Otranto.

Il 22 giugno 1799 finisce nel sangue l’ingenua e infelice Repubblica Napoletana

Il 22 giugno 1799 dopo una strenua resistenza i repubblicani napoletani, asserragliati nel Castello di Sant’Elmo si arresero all’esercito dei Sanfedisti guidati dal cardinale Ruffo, con la promessa di un salvacondotto. Terminò così la gloriosa pagina di un pugno di eroi che non seppe coinvolgere il popolo nel primo grande e forse unico tentativo di emancipazione del Sud.

Lo stemma della Repubblica Napoletana

Un regno moderno
Contrariamente a quanto si pensa, il Regno dei Borbone a Napoli, fin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1734, era fortemente innovatore specie in campo economico e sociale oltre a quello culturale: la testimonianza più concreta è fornita dall’ardito esperimento illuminista di San Leucio, in provincia di Caserta, nel 1789, lo stesso anno dello scoppio della rivoluzione francese. Si trattava di un esperimento socialista in piena regola perché prevedeva pari diritti per tutti, uomini e donne e l’istruzione obbligatoria a partire dai sei anni in poi.

La guerra contro i francesi
Lo scoppio della Rivoluzione francese e l’uccisione di Maria Antonietta, sorella della regina di Napoli, Maria Carolina, sulla ghigliottina, mutarono radicalmente la politica del regno in favore delle forze conservatrici. Dopo la vittoria di Nelson ad Aboukir (1 agosto 1798), il re di Napoli mosse su Roma occupata dai francesi e facilmente liberata, ma quando arrivarono i rinforzi del generale Championnet, i napoletani furono sconfitti. Ferdinando, sconfitto fuggì a Palermo

il miracolo di San Gennaro

Championnet proclama la Repubblica e San Gennaro fa il miracolo
Championnet, occupata Napoli difesa dai lazzari, cioè dal popolo napoletano, dopo tre giorni di accaniti combattimenti, il 22 gennaio 1799 proclamò la Repubblica Napoletana nominando anche il governo provvisorio. Inatteso ci fu il miracolo di San Gennaro che però non convinse il popolo e pertanto lo sostituì come Santo patrono con Sant’Antonio.
Fra i primi atti del nuovo governo ci furono provvedimenti per l’abolizione dei fedecommessi, le feudalità, la salvaguardia delle proprietà allodiali, tutte cose di cui neppure sapevano il significato. Mentre le tasse che gravavano sui beni di prima necessità, non furono ridotte neppure di un carlino. Non solo non enne gli sgravi sperati, gli fu chiesto di contribuire alle spese per il sostentamento dell’esercito francese!
Nella cerchia dei dirigenti della neo repubblica si affermò subito la figura di Eleonora Pimentel Fonseca (Roma, 13 gennaio 1752 – Napoli, 20 agosto 1799) anche se non ebbe nessun incarico ufficiale ma che attraverso il “Monitore Napoletano”, faceva sentire la sua voce.
Ma la Francia, avendo bisogno sempre di nuovi fondi per finanziare la sua politica espansionistica, non esitò a dichiarare patrimonio francese tutto l’ex patrimonio dei Borbone, le città sepolte di Pompei ed Ercolano, le doti degli ordini cavallereschi di Malta e Costantino, e di tutti i beni religiosi. Il popolo angariato sobillato dai reazionari e dal clero, mugugnava e aspettava l’innesco adatto per esplodere e tumultuare.

L’esercito della Santa Fede guidato da Sant’Antonio

Il contrattacco del Cardinale Ruffo
Il re, da Palermo, forte dell’appoggio popolare, nominò suo vicario il cardinale Fabrizio Ruffo, una specie di Richelieu o Mazzarino in sedicesimo, incaricandolo di liberare Napoli. Il prelato “con pochi uomini costituenti l’armata cristianissima” che annoverava fra le sue fila oltre ai fedeli della dinastia, anche briganti e galeotti, come Fra Diavolo e Gaetano Mammone, obbedì riportando i Borbone a Napoli. I rivoltosi rinserrati nel Castel di Sant’Elmo si arresero il 22 giugno 1799 con la promessa di aver salva la vita. Ma Nelson non ne volle sapere.

I martiri della Rivoluzione
La vittima più illustre fu Francesco Caracciolo, impiccato all’albero della nave Minerva il 29.6.1799. Le condanne furono 1251, di cui 120 a morte. Fra i giustiziati il fior fiore degli intellettuali napoletani fra cui il generale Gabriele Manthoné, il medico Domenico Cirillo, il filosofo Mario Pagano ed Eleonora Pimental Fonseca, oltre al già citato Caracciolo.

Luisa Sanfelice

La dolorosa fine di Luisa Sanfelice
Infine non possiamo dimenticare l’orrenda fine di Luisa Sanfelice. Sposata giovanissima al cugino Andrea Sanfelice visse un’ intensa vita mondana. All’istituzione della Repubblica la Sanfelice era al centro dell’attenzione di Gerardo Baccher, un fedelissimo del re di Napoli, di Ferdinando Ferri e Vincenzo Cuoco, dirigenti della Repubblica napoletana. I filo borbonici stavano organizzando un golpe. Fra i cospiratori c’era il Baccher, che preoccupato per la salvezza della Sanfelice, la mise al corrente della cospirazione. La Sanfelice corse ad avvertire Ferri che era quello le cui attenzioni gradiva di più. Scoperta, la rivolta fallì, Baccher arrestato e fucilato. Luisa Sanfelice che all’inizio era rimasta sconvolta dalla tragica fine del suo giovane spasimante, si galvanizzò quando scoprì di essere diventata l’eroina salvatrice della patria. Tornati i Borbone, nel settembre del 1799 fu condannata a morte. Per salvarla, la Sanfelice fu “dichiarata” incinta di tre mesi. Si sperava che lasciato sbollire quel momento, il re poi avrebbe cambiato idea, perché nel frattempo il suo impeto vendicativo si era calmato e gli ultimi condannati a morte graziati. Ma quando dopo 10 mesi l’inganno fu evidente, il re non volle sapere di graziarla e confermò la condanna a morte. Poiché era nobile aveva diritto alla decapitazione, ma il boia sbagliò il colpo e la finì con un coltello (11 settembre 1800).

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