La peste a Napoli del 1656 si blocca il giorno dell’Assunta

Micco Spadaro Il Lazzaretto di Piazza Mercatello a Napoli durante la peste

Da quando l’uomo vive in gruppo è stato vittima di malattie infettive. Le cronache storiche segnalano epidemie di vaiolo, di colera, l’influenza spagnola per finire alla pandemia del Corona virus del 2019. La più tremenda delle malattie infettive almeno finora, è stata la peste.
Nel secolo XVII era appena finita l’epidemia della peste del 1630 in Lombardia, che nel 1656 riapparve nel Vicereame spagnolo di Napoli.

Napoli era una delle città più popolate d’Europa, con più di 450.00 abitanti e una densità altissima. In concomitanza della peste di Milano nel 1631 ci fu una grande eruzione del Vesuvio che non contribuì a migliorare la situazione, facendo affluire nella città partenopea circa 40.000 sfollati dalle zone circostanti. La città non possedeva ancora un adeguato sistema fognario di acquedotti. Si viveva in precarie condizioni igieniche unite ad altri fattori quali la scarsa e cattiva alimentazione nonché la grande quantità di animali che vivevano in promiscuità con i napoletani.

La peste da Valenza ( Spagna ) sbarca a Napoli
Fra la peste del 1630 a Milano e quella del 1656, a Napoli nel 1647 c’era stata la rivoluzione di Masaniello.
Nello stesso periodo in cui Masaniello dava inizio alla sua rivolta, a Valenza in Spagna cominciarono a morire improvvisamente dei calzolai sui cui cadaveri erano evidenti lividi e bubboni che furono riconosciuti per sintomi inequivocabili della peste. In quattro mesi morirono più di 20.000 persone, vale a dire circa la metà della popolazione di Valenza. Nel 1650 la peste da Valenza al seguito delle milizie spagnole, arrivò in Sardegna e l’Isola fu subito messa in quarantena. Ma fu una quarantena molto elastica con gravi conseguenze per tutti.
La Spagna allora era impegnata con la guerra in Lombardia contro il duca di Modena e raccoglieva soldati da tutti i suoi possedimenti specialmente da quelli stanziati in Sardegna per poi trasferirli sui campi di battaglia. Solo il porto di Napoli era quello maggiormente attrezzato al trasferimento delle truppe, disponendo di numerose e veloci navi per condurre le milizie nei porti della Liguria. Il viceré, che aveva proibito ogni sbarco dalla Sardegna, autorizzò lo sbarco dei soldati, violando le sue stesse disposizioni, ma poiché l’ epidemia non era conclamata e le pressioni da Madrid erano forti, si minimizzò il pericolo. Ma il 12 agosto del 1654 ci fu una quasi completa eclissi del sole e i preti si misero a gridare che questo fenomeno annunciava l’imminente castigo di Dio contro tutti i peccatori perchè la peste era una punizione divina per la rivolta intentata da Masaniello e dal popolo contro il re cattolico.
Il 1656 comincio tranquillamente tanto è vero che quell’anno, dimentichi di tutti di tutto, ci fu il miglior carnevale dell’ultimi anni. Ma alla fine il morbo sbarcò a Napoli. Come leggenda metropolitana si raccontava che un ufficiale ritornato a Napoli dalla Spagna facendo tappa in Sardegna, un certo Masone, essendosi sentito improvvisamente male e portato nell’ospedale dell’Annunziata, era morto in due giorni tutto coperto di lividi e di bubboni. Un congiunto che avrebbe assistito il Masone, morì a casa sua dopo 24 ore nel quartiere del Lavinaio, nei pressi del mercato. Inoltre i funzionari spagnoli che in quel periodo facevano, per fini fiscali, il censimento dei “fuochi”, cioè delle famiglie, notarono che nel quartiere del Lavinaio, i morti erano aumentati in maniera strana. Alla Quaresima l’animo dei napoletani era già mutato perché l’ inspiegabile aumento della mortalità non si fermava, anzi da quel quartiere si spandeva a quelli limitrofi.

I porci di Sant’Antonio Abate portati fuori città
Il viceré, allora per combattere un imprecisato “morbo corrente” in via precauzionale prescrisse di bruciare le suppellettili degli ammalati, togliere l’immondizia dalle strade e portare gli animali fuori città e ci volle un grande coraggio nello stabilire questo, perché allora i monaci di Sant’Antonio Abate possedevano grandi mandrie di porci i quali in virtù della immunità ecclesiastica concessa all’ abate di Sant Antuono, cardinale Barberini, vagavano liberi per tutte le strade della città ricevendo del cibo come atto di devozione del popolo ed erano abbracciati e venerati un po’ come le vacche sacre in India.

Gli untori francesi
Nello stesso periodo i francesi erano tornati a Napoli per cercare di riappropriarsene e si erano fermati a Castellammare in attesa di poter agire. Per sviare l’attenzione la colpa dei decessi fu data ai francesi che spargevano il veleno dappertutto: nell’acqua, nei pozzi, sulle monete e sui banchi delle chiese. Allora bastava avere un accento forestiero o un vestito che sembrava tale per passare i guai, dalle semplici bastonate al libero linciaggio. Insomma cose già descritte nei Promessi Sposi.

Dopo 4 mesi le Autorità ed popolo ancora non volevano arrendersi all’evidenza, ma con l’approssimarsi della stagione estiva i decessi aumentavano smisuratamente e a maggio il viceré dovette dichiarare ufficialmente l’esistenza della peste. Ma invano si cercò di abolire le cerimonie religiose e le processioni, così l’infezione assumeva dimensioni sempre più grandi.

Il DPCM del Viceré ed il Green Pass

Il 16 giugno 1656 furono adottate le prime prescrizioni ufficiali contro la peste.
Per prima cosa bisognava porre sopra ogni porta della città l’immagine della Madonna con il Bambino, sotto San Gennaro, a destra S. Francesco Saverio e a sinistra Santa Rosalia.
In campo più strettamente sanitario fu stabilito:

  1. La chiusura dell’abitazione in cui ci fosse un appestato e messa sotto sorveglianza dall’esterno
  2. I parenti dei defunti dovevano rimanere chiusi in casa in quarantena. Ai beni di prima necessità avrebbero provveduto la municipalità
  3. Bruciare tutte le suppellettili e gli abiti degli appestati
  4. Portare gli ammalati nei lazzaretti approntati fuori le mura per evitare il contatto con il resto della popolazione
  5. Proibito seppellire dentro le Chiese.
  6. Introduzione del green pass che nessuno osava osteggiare, ma che tutti si attrezzavano ad aggirarlo. La delibera della Deputazione della Sanità del 23 maggio del 1656, anteriore a questa ordinava alle guardie delle porte cittadine di “non ammettere persone alcuna di una terra all’altra se non portano i soliti bollettini di salute”, una sorta di Green Pass.

I medici e gli infermieri andavano in giro vestiti con un camicione incerato, sui viso una maschera alla pulcinella nel cui naso c’erano delle erbe medicamentose e avevano una specie di occhialoni. Portavano una lungo bastone per poter tastare i malati a distanza.
Di sera per le strade della città venivano bruciati rami di alloro e rosmarino e grani di incenso per disinfettare l’aria.
Anche i frati ed i preti dettero prova di abnegazione con la loro opera, riscattandosi dalla preventiva azione di demonizzazione e anche qui molti di loro morirono sul campo.
In poco tempo si arrivò al punto che mancarono i mezzi per raccogliere i cadaveri, nessuno voleva farlo e poi non si sapeva dove seppellirli.
Il vicerè mobilitò i soldati spagnoli per scavare delle fosse comuni fuori città e portarvi i cadaveri prelevati dalle case. Ciò dette la stura ad altri abusi da parte della soldataglia, furti estorsioni, ricatti. L’eletto del popolo della deputazione della Sanità, tale Felice Basile, riuscì a far requisire tutte le carrette della città e con l’aiuto di volontari ripulì le strade buttando i corpi in una immensa grotta detta dei Pipistrelli (Sportiglioni in napoletano) e poi nelle altre di cui Napoli sotterranea ne è piena. Oggi i resti di quei poveretti si possono ancora visitare, nel famoso “ Cimitero delle fontanelle”. A luglio l’epidemia raggiunse il punto più alto.

Il 15 Agosto, festa dell’Assunta, la peste frena
Dal caldo torrido di luglio, il tempo ad agosto divenne improvvisamente tempestoso diluviando a dirotto fino al 14 agosto. Le strade di Napoli divennero delle fiumare che trascinavano tutto a mare dalle falde del Vesuvio in giù, la più colossale opera di disinfestazione mai effettuata.
Il 15 agosto, giorno dell’Assunta la peste cominciò a frenare, i contagi a diminuire e gli ammalati a guarire. Scoppiò subito una guerra a chi attribuire questo miracolo. La maggioranza era per la Madonna Assunta, ma c’erano anche nutrite schiere che propendevano anche per San Gaetano che si festeggia il 7 di agosto, a San Francesco Saverio e San Gennaro.
Il trend si mantenne in discesa costante fino a che il giorno 8 dicembre festa dell’Immacolata, Napoli fu dichiarata libera dalla pestilenza. La peste aveva provocato circa 200 000 morti; anche nel resto del regno il tasso di mortalità fu altissimo. Alcuni villaggi furono completamente distrutti.

Il fotoreporter di questa calamità, fu il pittore Micco Spadaro, al secolo Domenico Gargiulo (Napoli, 1609/1612 – 1675), famoso soprattutto per aver documentato i tumultuosi avvenimenti della Napoli del XVII secolo (l’eruzione del Vesuvio , la rivolta di Masaniello e la peste).

Per una conoscenza più dettagliata di questa peste si consiglia di leggere Salvatore De Renzi “ Napoli nell’anno 1656” Tip. De Pascale Napoli – 1867, che è stata una delle fonti primaria da cui sono tratte queste note – reperibile su Google Book.

Le piccionaie borboniche, meravigliosi monumenti da visitare

La colombaia di Otranto – Ipogeo di Torre Pinta

Il territorio italiano, specie in Puglia e segnalatamente nel salentino, è puntellato da strani edifici circolari o quadrati che sembrano delle torri di vedetta, ma la loro funzione è completamente diversa, il che non esclude che qualche volta fossero utilizzate per scopi bellici, anzi.
Si tratta delle “colombaie”, edifici adibiti esclusivamente all’allevamento dei piccioni domestici e dei piccioni viaggiatori.
Le origini di queste costruzioni si perdono nella notte dei tempi ma le prime fonti storiche si trovano nel periodo feudale quando il feudatario misura il suo potere e la sua ricchezza in base ai diritti che gli ha concesso l’imperatore o il suo diretto feudatario superiore. Poteva avere il diritto di imporre decime, di cacciare, di riscuotere tasse e pedaggi, nonché il diritto di allevare colombi. Per questo come elemento di prestigio della casata, si costruivano degli appositi edifici a forma quadrata o rotonda, con tante finestrelle allineate dove nidificavano i volatili e a fianco fori più piccoli, per l’allevamento di passeri e rondini, oggetto essi pure di geloso diritto.
Il piccione domestico era utile per le sue carni e per le deiezioni che servivano per concimare i campi. A fianco di questi piccioni c’erano i piccioni viaggiatori, oggetti di una cura ancora maggiore.
ll piccione viaggiatore è una varietà del piccione domestico selezionato geneticamente per migliorarne le attitudini. Infatti il piccione viaggiatore ha un innato senso di orientamento che gli permette di tornare al proprio nido sfruttando il fenomeno della magnetoricezione, cioè il senso degli animali di percezione del campo magnetico della Terra, che come una bussola giuda il volatile nella direzione giusta. In alcune competizioni colombofile sono stati registrati voli fino a 1800 km di distanza, ma la loro velocità media in volo su moderate distanze (600 km) è di circa 80 chilometri all’ora. Grazie alle sue capacità di orientamento e di viaggiare lontano, in passato fu utilizzato per portare messaggi (colombigramma) da un luogo all’altro.

Un forte addensamento delle colombaie è reperibile nel Salento Questi volatili costituivano un tassello importante per l’economia salentina, non solo in epoca medievale.
Le torri colombaie sono presenti in quasi tutte le città del Salento e l’Ipogeo di Torre Pinta di Otranto è una delle più belle. In epoca borbonica, invece, il suo uso cambiò radicalmente privilegiando l’utilizzo dei piccioni viaggiatori, il cui utilizzo non si esaurì con l’invenzione del telegrafo, che nel Regno delle Due Sicilie fu introdotto nel 1851, ma continuò per ancora un lungo periodo perché il nuovo sistema di trasmissione, più veloce ed efficiente dei piccioni certamente, si guastavano facilmente oppure le linee erano soggette a sabotaggi.
L’arma usata contro i piccioni viaggiatori furono i falchi.
Ora qualcuno afferma che per sfuggire alle intercettazioni dei propri messaggi e godere veramente di un’autentica privacy, i colombi viaggiatori sono ritornati di moda perché a prova di trojan ed hacker.
La torre colombaia di Otranto come detto è la più bella e la più famosa. La scoperta di questo ipogeo, avvenne solo nell’agosto del 1976
La posizione strategica del sito conferma la supposizione che si trattasse prevalentemente, se non esclusivamente di una base per colombi viaggiatori, al servizio del comando militare borbonico di presidio in Terra d’Otranto.

Il 22 giugno 1799 finisce nel sangue l’ingenua e infelice Repubblica Napoletana

Il 22 giugno 1799 dopo una strenua resistenza i repubblicani napoletani, asserragliati nel Castello di Sant’Elmo si arresero all’esercito dei Sanfedisti guidati dal cardinale Ruffo, con la promessa di un salvacondotto. Terminò così la gloriosa pagina di un pugno di eroi che non seppe coinvolgere il popolo nel primo grande e forse unico tentativo di emancipazione del Sud.

Lo stemma della Repubblica Napoletana

Un regno moderno
Contrariamente a quanto si pensa, il Regno dei Borbone a Napoli, fin dalla sua fondazione, avvenuta nel 1734, era fortemente innovatore specie in campo economico e sociale oltre a quello culturale: la testimonianza più concreta è fornita dall’ardito esperimento illuminista di San Leucio, in provincia di Caserta, nel 1789, lo stesso anno dello scoppio della rivoluzione francese. Si trattava di un esperimento socialista in piena regola perché prevedeva pari diritti per tutti, uomini e donne e l’istruzione obbligatoria a partire dai sei anni in poi.

La guerra contro i francesi
Lo scoppio della Rivoluzione francese e l’uccisione di Maria Antonietta, sorella della regina di Napoli, Maria Carolina, sulla ghigliottina, mutarono radicalmente la politica del regno in favore delle forze conservatrici. Dopo la vittoria di Nelson ad Aboukir (1 agosto 1798), il re di Napoli mosse su Roma occupata dai francesi e facilmente liberata, ma quando arrivarono i rinforzi del generale Championnet, i napoletani furono sconfitti. Ferdinando, sconfitto fuggì a Palermo

il miracolo di San Gennaro

Championnet proclama la Repubblica e San Gennaro fa il miracolo
Championnet, occupata Napoli difesa dai lazzari, cioè dal popolo napoletano, dopo tre giorni di accaniti combattimenti, il 22 gennaio 1799 proclamò la Repubblica Napoletana nominando anche il governo provvisorio. Inatteso ci fu il miracolo di San Gennaro che però non convinse il popolo e pertanto lo sostituì come Santo patrono con Sant’Antonio.
Fra i primi atti del nuovo governo ci furono provvedimenti per l’abolizione dei fedecommessi, le feudalità, la salvaguardia delle proprietà allodiali, tutte cose di cui neppure sapevano il significato. Mentre le tasse che gravavano sui beni di prima necessità, non furono ridotte neppure di un carlino. Non solo non enne gli sgravi sperati, gli fu chiesto di contribuire alle spese per il sostentamento dell’esercito francese!
Nella cerchia dei dirigenti della neo repubblica si affermò subito la figura di Eleonora Pimentel Fonseca (Roma, 13 gennaio 1752 – Napoli, 20 agosto 1799) anche se non ebbe nessun incarico ufficiale ma che attraverso il “Monitore Napoletano”, faceva sentire la sua voce.
Ma la Francia, avendo bisogno sempre di nuovi fondi per finanziare la sua politica espansionistica, non esitò a dichiarare patrimonio francese tutto l’ex patrimonio dei Borbone, le città sepolte di Pompei ed Ercolano, le doti degli ordini cavallereschi di Malta e Costantino, e di tutti i beni religiosi. Il popolo angariato sobillato dai reazionari e dal clero, mugugnava e aspettava l’innesco adatto per esplodere e tumultuare.

L’esercito della Santa Fede guidato da Sant’Antonio

Il contrattacco del Cardinale Ruffo
Il re, da Palermo, forte dell’appoggio popolare, nominò suo vicario il cardinale Fabrizio Ruffo, una specie di Richelieu o Mazzarino in sedicesimo, incaricandolo di liberare Napoli. Il prelato “con pochi uomini costituenti l’armata cristianissima” che annoverava fra le sue fila oltre ai fedeli della dinastia, anche briganti e galeotti, come Fra Diavolo e Gaetano Mammone, obbedì riportando i Borbone a Napoli. I rivoltosi rinserrati nel Castel di Sant’Elmo si arresero il 22 giugno 1799 con la promessa di aver salva la vita. Ma Nelson non ne volle sapere.

I martiri della Rivoluzione
La vittima più illustre fu Francesco Caracciolo, impiccato all’albero della nave Minerva il 29.6.1799. Le condanne furono 1251, di cui 120 a morte. Fra i giustiziati il fior fiore degli intellettuali napoletani fra cui il generale Gabriele Manthoné, il medico Domenico Cirillo, il filosofo Mario Pagano ed Eleonora Pimental Fonseca, oltre al già citato Caracciolo.

Luisa Sanfelice

La dolorosa fine di Luisa Sanfelice
Infine non possiamo dimenticare l’orrenda fine di Luisa Sanfelice. Sposata giovanissima al cugino Andrea Sanfelice visse un’ intensa vita mondana. All’istituzione della Repubblica la Sanfelice era al centro dell’attenzione di Gerardo Baccher, un fedelissimo del re di Napoli, di Ferdinando Ferri e Vincenzo Cuoco, dirigenti della Repubblica napoletana. I filo borbonici stavano organizzando un golpe. Fra i cospiratori c’era il Baccher, che preoccupato per la salvezza della Sanfelice, la mise al corrente della cospirazione. La Sanfelice corse ad avvertire Ferri che era quello le cui attenzioni gradiva di più. Scoperta, la rivolta fallì, Baccher arrestato e fucilato. Luisa Sanfelice che all’inizio era rimasta sconvolta dalla tragica fine del suo giovane spasimante, si galvanizzò quando scoprì di essere diventata l’eroina salvatrice della patria. Tornati i Borbone, nel settembre del 1799 fu condannata a morte. Per salvarla, la Sanfelice fu “dichiarata” incinta di tre mesi. Si sperava che lasciato sbollire quel momento, il re poi avrebbe cambiato idea, perché nel frattempo il suo impeto vendicativo si era calmato e gli ultimi condannati a morte graziati. Ma quando dopo 10 mesi l’inganno fu evidente, il re non volle sapere di graziarla e confermò la condanna a morte. Poiché era nobile aveva diritto alla decapitazione, ma il boia sbagliò il colpo e la finì con un coltello (11 settembre 1800).

8 Giugno 1959: inizia lo sciopero dei marittimi torresi

panoramica di Torre del Greco

Le ragioni dello sciopero

Il 1959 è l’anno delle contraddizioni economiche che si trascinano irrisolte ancora oggi. Da una parte, trainata dal nord, l’Italia si apprestava a vivere il suo Boom Economico. Dall’altra, al sud non si modernizzava l’agricoltura, mancavano camion e trattori ma si pensava a industrializzare il meridione con delle fabbriche avulse dal sistema economico chiamate poi cattedrali nel deserto. Erano gli anni della Cassa del Mezzogiorno che da ente di sviluppo divenne strumento di potere clientelare ed assistenziale.
In quell’anno i film della Bardot sono proibiti perché immorali come anche i blues jeans proibiti perfino sul posto di lavoro. Viene rinnovata la scomunica fatta durante la guerra per chi vota comunista. Al governo c’è Antonio Segni, che poi divenne presidente della Repubblica in odore di colpo di stato, che è anche ministro dell’Interno e alla marina mercantile c’è Raffaele Iervolino. La ripresa economica iniziata nelle industrie del triangolo industriale fa sperare anche agli altri lavoratori di migliorare le loro condizioni. La guerra è ormai è un ricordo e nelle fabbriche gli operai ricevono aumenti fino al 50%!
In questo contesto si apre il rinnovo del contratto collettivo nazionale del lavoro dei marittimi. Ma contrariamente alle aspettative, le delegazioni sindacali si trovano di fronte ad un arroccamento degli armatori disposti solo a concessioni marginali ed inconsistenti.

La proclamazione dello sciopero

L’ 8 Giugno 1959 le trattative si chiudono con un nulla di fatto. Di fronte alla chiusura degli armatori ci sono i marittimi esacerbati da paghe di fame, costretti a vivere una vita nomade “sull’acqua salata”, perennemente lontani dalla famiglia. Così venne proclamato lo sciopero generale della categoria. I marittimi torresi aderirono in blocco.
Torre del Greco, fino ad allora era essenzialmente una città marittima. Più di metà della popolazione viveva di mare e “la patente di nuotatore e vogatore” era il viatico necessario per l’accesso al mondo del lavoro.
I miei parenti, a cominciare da quelli più stretti, con diversi gradi e responsabilità, erano tutti marittimi: chi imbarcato sulla Italia Navigazione, chi sulla Lloyd triestina, chi sulle navi di Achille Lauro, il comandante, non il cantante eccetera. A Torre c’è ancora un apprezzato Istituto Nautico, Cristoforo Colombo, che forma la gente di mare, principalmente ufficiali di macchina e di coperta, famosi in tutto il mondo.
Ma questo scenario idilliaco era destinato a scomparire principalmente a causa della diffusione massiccia dei trasporti aerei, prima ancora dei viaggi low cost e della globalizzazione dei mercati e in quegli anni cominciavano a farsi sentire i primi effetti.

Alla Camera i numeri del disastro

In base al resoconto fatta alla Camera dei Deputati il 26 giugno 1959, i marittimi italiani imbarcati su navi mercantili erano circa 40.000 a fronte dei 100.000 iscritti nei turni del Collocamento, praticamente c’era il rischio di potersi imbarcare raramente e gli strumenti di sostegno del reddito erano scarsissimi. C’era l’ indennità disoccupazione e la Cassa Mutua Malattie Meridionale ubicata a Via Cesare Battisti, che dava un po’ di assistenza medica per 6 mesi poi chi si è visto si è visto: non c’era ancora il Servizio Sanitario Nazionale che arrivò nel 1978.

La lotta dei torresi
Non solo questa lotta è ben viva nella memoria collettiva del popolo torrese, ma alcuni lo ricordano per averla vissuta personalmente, chi scrive all’epoca dei fatti aveva 9 anni ( nove) e abitante in Corso Umberto I di fronte alla Chiesa del Rosario, si ricorda ancora la città assediata, i celerini di scelbiana memoria schierati nei punti strategici, di fronte alla posta centrale angolo via Roma, Piazza Luigi Palomba, e giù al porto naturalmente. In mancanza di risposte, le manifestazioni di disagio sociale aumentarono di giorno in giorno dal quell’8 giugno ed ebbero i momenti più acuti fra il giorno 15 ed il giorno 30. In mezzo c’era stata la festa dei 4 Altari, una festività ora dismessa, ma all’epoca centrale nella vita dei torresi, che tuttavia non placò gli animi.

La festa dei 4 altari
Era una festa a metà strada fra una ricorrenza laica e religiosa. Religiosa per la celebrazione dell’Eucarestia, ossia di Cristo vivente e realmente te sotto le apparenze del pane. Laica in ricordo del «riscatto baronale ».
I territori dell’ex vicereame spagnolo in Italia erano divisi in territori demaniali e territori feudali. Su quelli feudali imperavano i famigerati baroni mentre le città demaniali erano inserite in contesti più avanzati e soggetti a leggi in genere più permissive, sia dal punto di vista sociale che economico.

l’Altare in piazza Luigi Palomba

Da qui la tendenza, dei centri economicamente avanzati, di sottrarsi ai baroni. Passando al demanio in sostanza si diventava padroni del proprio destino. Questa avvenne a Torre del Greco. Il primo “capitano barone” di Torre del Greco, Ercolano e Portici fu Francesco Carafa che ebbe l’incarico di governatore regio all’incirca all’inizio del 1600. Passato successivamente di mano, alla fine del 1600 la baronia stava per essere ceduta per 106.000 ducati al nobile spagnolo Don Mario Loffredo, ma il Loffredo non aveva tutta la disponibilità e aveva versato solamente una caparra. I magnati di Torre del Greco allora raccolsero circa 55 mila ducati come loro quota, il resto era ripartito fra Portici ed Ercolano. Così il 18 maggio 1699 per decreto regio, Torre passò al demanio pubblico. Solo 50 anni prima, nel 1647, c’era stata la rivolta di Masaniello contro le malversazioni dei governanti.

Di origine borghese comunque la festa divenne popolare.
La celebrazione della festa si incentrava sui famosi 4 altari che erano dei pannelli giganteschi sui quali si misuravano i migliori pittori di Torre del Greco dipingendo scenografie o riproduzioni di quadri a sfondo religioso. Questi pannelli erano sostenuti da pali di legno. Ora durante la rivolta questi pali vennero utilizzati per la costruzione di barricate per impedire le cariche della polizia.

Torre presidiata

Il 29 giugno 1959 era previsto un corteo che doveva sfilare nel centro cittadino ancora addobbato per la recente Festa dei Quattro Altari. Inizialmente l’evento si svolse in modo assolutamente pacifico e senza alcun incidente, sorvegliato a vista da un nutrito contingente di forza pubblica della Questura di Napoli. La situazione precipitò quando si decise di andare in delegazione dal sindaco torrese Raffaele Capano per sollecitare un suo intervento presso il Governo. La posizione di Capano era piuttosto delicata al momento, perché oltre ad essere sindaco era anche un armatore privato. Si trattava di un corteo non previsto e quindi non autorizzato, ma la presenza di donne con bambini faceva prevedere una continuazione pacifica come pacifica era stata la manifestazione. La polizia, però, ebbe l’ ordine di disperdere questo corteo non autorizzato. e fece ricorso ai lacrimogeni per disperdere la folla che non si fece intimidire. Furono lanciati oggetti di ogni tipo, e come detto i pali degli altari e delle luminarie furono utilizzati per sbarrare le strade e impedire le cariche. Un mezzo militare andò a fuoco e allora, secondo alcune testimonianze non confermate, furono sparati anche a colpi in aria a scopo intimidatorio. In breve ci fu una vera guerriglia urbana che andò avanti per diverse ore. A sera quando fu ristabilita la calma e tratto in arresto molti manifestanti, Piazza Santa Croce dintorni, avevano l’aspetto di un campo di battaglia.

momenti della manifestazione (Torreomnia)


Il giorno dopo, 30 giugno, Torre del Greco, era presidiata da ingenti forze di polizia, sembrava una città in stato d’assedio, con negozi chiusi, attività ferme.
Finalmente il 18 luglio 1959, furono ripresi i negoziati, revocato lo sciopero, durato ben quaranta giorni raggiungendo quegli obbiettivi che erano stati inizialmente negati, come l’aumento della paga, il riconoscimento del diritto di sciopero per il personale navigante, la presenza a bordo della rappresentanza sindacale, la sicurezza sul lavoro a bordo e un reddito nei periodi di sbarco.
Ma da quel momento in poi, nonostante le conquiste ottenute, l’attività marittima torrese cominciò un lento e inarrestabile declino che dura fino ai giorni nostri, dove la pandemia, bloccando anche le crociere ha dato un definitivo colpo di grazia.

Piazza Santa Croce
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