8 Giugno 1959: inizia lo sciopero dei marittimi torresi

panoramica di Torre del Greco

Le ragioni dello sciopero

Il 1959 è l’anno delle contraddizioni economiche che si trascinano irrisolte ancora oggi. Da una parte, trainata dal nord, l’Italia si apprestava a vivere il suo Boom Economico. Dall’altra, al sud non si modernizzava l’agricoltura, mancavano camion e trattori ma si pensava a industrializzare il meridione con delle fabbriche avulse dal sistema economico chiamate poi cattedrali nel deserto. Erano gli anni della Cassa del Mezzogiorno che da ente di sviluppo divenne strumento di potere clientelare ed assistenziale.
In quell’anno i film della Bardot sono proibiti perché immorali come anche i blues jeans proibiti perfino sul posto di lavoro. Viene rinnovata la scomunica fatta durante la guerra per chi vota comunista. Al governo c’è Antonio Segni, che poi divenne presidente della Repubblica in odore di colpo di stato, che è anche ministro dell’Interno e alla marina mercantile c’è Raffaele Iervolino. La ripresa economica iniziata nelle industrie del triangolo industriale fa sperare anche agli altri lavoratori di migliorare le loro condizioni. La guerra è ormai è un ricordo e nelle fabbriche gli operai ricevono aumenti fino al 50%!
In questo contesto si apre il rinnovo del contratto collettivo nazionale del lavoro dei marittimi. Ma contrariamente alle aspettative, le delegazioni sindacali si trovano di fronte ad un arroccamento degli armatori disposti solo a concessioni marginali ed inconsistenti.

La proclamazione dello sciopero

L’ 8 Giugno 1959 le trattative si chiudono con un nulla di fatto. Di fronte alla chiusura degli armatori ci sono i marittimi esacerbati da paghe di fame, costretti a vivere una vita nomade “sull’acqua salata”, perennemente lontani dalla famiglia. Così venne proclamato lo sciopero generale della categoria. I marittimi torresi aderirono in blocco.
Torre del Greco, fino ad allora era essenzialmente una città marittima. Più di metà della popolazione viveva di mare e “la patente di nuotatore e vogatore” era il viatico necessario per l’accesso al mondo del lavoro.
I miei parenti, a cominciare da quelli più stretti, con diversi gradi e responsabilità, erano tutti marittimi: chi imbarcato sulla Italia Navigazione, chi sulla Lloyd triestina, chi sulle navi di Achille Lauro, il comandante, non il cantante eccetera. A Torre c’è ancora un apprezzato Istituto Nautico, Cristoforo Colombo, che forma la gente di mare, principalmente ufficiali di macchina e di coperta, famosi in tutto il mondo.
Ma questo scenario idilliaco era destinato a scomparire principalmente a causa della diffusione massiccia dei trasporti aerei, prima ancora dei viaggi low cost e della globalizzazione dei mercati e in quegli anni cominciavano a farsi sentire i primi effetti.

Alla Camera i numeri del disastro

In base al resoconto fatta alla Camera dei Deputati il 26 giugno 1959, i marittimi italiani imbarcati su navi mercantili erano circa 40.000 a fronte dei 100.000 iscritti nei turni del Collocamento, praticamente c’era il rischio di potersi imbarcare raramente e gli strumenti di sostegno del reddito erano scarsissimi. C’era l’ indennità disoccupazione e la Cassa Mutua Malattie Meridionale ubicata a Via Cesare Battisti, che dava un po’ di assistenza medica per 6 mesi poi chi si è visto si è visto: non c’era ancora il Servizio Sanitario Nazionale che arrivò nel 1978.

La lotta dei torresi
Non solo questa lotta è ben viva nella memoria collettiva del popolo torrese, ma alcuni lo ricordano per averla vissuta personalmente, chi scrive all’epoca dei fatti aveva 9 anni ( nove) e abitante in Corso Umberto I di fronte alla Chiesa del Rosario, si ricorda ancora la città assediata, i celerini di scelbiana memoria schierati nei punti strategici, di fronte alla posta centrale angolo via Roma, Piazza Luigi Palomba, e giù al porto naturalmente. In mancanza di risposte, le manifestazioni di disagio sociale aumentarono di giorno in giorno dal quell’8 giugno ed ebbero i momenti più acuti fra il giorno 15 ed il giorno 30. In mezzo c’era stata la festa dei 4 Altari, una festività ora dismessa, ma all’epoca centrale nella vita dei torresi, che tuttavia non placò gli animi.

La festa dei 4 altari
Era una festa a metà strada fra una ricorrenza laica e religiosa. Religiosa per la celebrazione dell’Eucarestia, ossia di Cristo vivente e realmente te sotto le apparenze del pane. Laica in ricordo del «riscatto baronale ».
I territori dell’ex vicereame spagnolo in Italia erano divisi in territori demaniali e territori feudali. Su quelli feudali imperavano i famigerati baroni mentre le città demaniali erano inserite in contesti più avanzati e soggetti a leggi in genere più permissive, sia dal punto di vista sociale che economico.

l’Altare in piazza Luigi Palomba

Da qui la tendenza, dei centri economicamente avanzati, di sottrarsi ai baroni. Passando al demanio in sostanza si diventava padroni del proprio destino. Questa avvenne a Torre del Greco. Il primo “capitano barone” di Torre del Greco, Ercolano e Portici fu Francesco Carafa che ebbe l’incarico di governatore regio all’incirca all’inizio del 1600. Passato successivamente di mano, alla fine del 1600 la baronia stava per essere ceduta per 106.000 ducati al nobile spagnolo Don Mario Loffredo, ma il Loffredo non aveva tutta la disponibilità e aveva versato solamente una caparra. I magnati di Torre del Greco allora raccolsero circa 55 mila ducati come loro quota, il resto era ripartito fra Portici ed Ercolano. Così il 18 maggio 1699 per decreto regio, Torre passò al demanio pubblico. Solo 50 anni prima, nel 1647, c’era stata la rivolta di Masaniello contro le malversazioni dei governanti.

Di origine borghese comunque la festa divenne popolare.
La celebrazione della festa si incentrava sui famosi 4 altari che erano dei pannelli giganteschi sui quali si misuravano i migliori pittori di Torre del Greco dipingendo scenografie o riproduzioni di quadri a sfondo religioso. Questi pannelli erano sostenuti da pali di legno. Ora durante la rivolta questi pali vennero utilizzati per la costruzione di barricate per impedire le cariche della polizia.

Torre presidiata

Il 29 giugno 1959 era previsto un corteo che doveva sfilare nel centro cittadino ancora addobbato per la recente Festa dei Quattro Altari. Inizialmente l’evento si svolse in modo assolutamente pacifico e senza alcun incidente, sorvegliato a vista da un nutrito contingente di forza pubblica della Questura di Napoli. La situazione precipitò quando si decise di andare in delegazione dal sindaco torrese Raffaele Capano per sollecitare un suo intervento presso il Governo. La posizione di Capano era piuttosto delicata al momento, perché oltre ad essere sindaco era anche un armatore privato. Si trattava di un corteo non previsto e quindi non autorizzato, ma la presenza di donne con bambini faceva prevedere una continuazione pacifica come pacifica era stata la manifestazione. La polizia, però, ebbe l’ ordine di disperdere questo corteo non autorizzato. e fece ricorso ai lacrimogeni per disperdere la folla che non si fece intimidire. Furono lanciati oggetti di ogni tipo, e come detto i pali degli altari e delle luminarie furono utilizzati per sbarrare le strade e impedire le cariche. Un mezzo militare andò a fuoco e allora, secondo alcune testimonianze non confermate, furono sparati anche a colpi in aria a scopo intimidatorio. In breve ci fu una vera guerriglia urbana che andò avanti per diverse ore. A sera quando fu ristabilita la calma e tratto in arresto molti manifestanti, Piazza Santa Croce dintorni, avevano l’aspetto di un campo di battaglia.

momenti della manifestazione (Torreomnia)


Il giorno dopo, 30 giugno, Torre del Greco, era presidiata da ingenti forze di polizia, sembrava una città in stato d’assedio, con negozi chiusi, attività ferme.
Finalmente il 18 luglio 1959, furono ripresi i negoziati, revocato lo sciopero, durato ben quaranta giorni raggiungendo quegli obbiettivi che erano stati inizialmente negati, come l’aumento della paga, il riconoscimento del diritto di sciopero per il personale navigante, la presenza a bordo della rappresentanza sindacale, la sicurezza sul lavoro a bordo e un reddito nei periodi di sbarco.
Ma da quel momento in poi, nonostante le conquiste ottenute, l’attività marittima torrese cominciò un lento e inarrestabile declino che dura fino ai giorni nostri, dove la pandemia, bloccando anche le crociere ha dato un definitivo colpo di grazia.

Piazza Santa Croce

Il 24 maggio l’esercito marciava per raggiungere la frontiera: una guerra che sconvolse il mondo

Il Piave mormorava
Calmo e placido al passaggio
Dei primi fanti il 24 Maggio:
L’esercito marciava
Per raggiungere la frontiera
Per far contro il nemico una barriera!

Così recitava la celebre canzone del napoletano di E A Mario, LA LEGGENDA DEL PIAVE.
Quel giorno l’Italia entrava nella più spaventosa guerra mai combattuta. La prima guerra mondiale fu un conflitto chiamato così perché per la prima volta coinvolse quasi tutti gli Stati allora esistenti che tra il 28 luglio 1914 e l’11 novembre 1918. Man a mano che procedeva, la guerra coinvolse nazioni, come Bulgaria, Persia, Romania, Portogallo, Brasile, Cina, Giappone, Siam e Grecia; determinante fu l’ingresso nel 1917 degli Stati Uniti d’America a fianco degli Alleati. L’Italia, pur restando neutrale, era in cerca dei migliori vantaggi territoriali in cambio del proprio intervento: l’8 aprile 1915 offrì di entrare in guerra a fianco degli alleati delle potenze centrali, Austria e Germania se le fossero stati ceduti Trentino, isole della Dalmazia, Gorizia, Gradisca e riconosciuto il “primato” sull’Albania, ricevendo un rifiuto dall’Austria .L’Italia allora avanzò richieste ancora più gravose alle potenze dell’Intesa, che accettarono. Così il 23 maggio fu dichiarata guerra all’Austria-Ungheria e il 24 l’esercito si mise in marcia.

La guerra si concluse definitivamente l’11 novembre 1918 quando la Germania, ultimo degli Imperi centrali a deporre le armi, firmò l’armistizio imposto dagli Alleati. Alcuni dei maggiori imperi esistenti al mondo – tedesco, austro-ungarico, ottomano e russo – scomparvero, generando diversi stati nazionali che ridisegnarono completamente la geografia politica dell’Europa mentre la nuova potenza egemone fu quella degli Stati Uniti d’America. La guerra costò al popolo italiano circa 650.000 caduti e un milione di feriti. Il mancato rispetto del patto di Londra sui territori e la crisi economico sociale favorì l’avvento del fascismo.
Si pensava ad una facile avventura militare per conquistarsi il solito posto al tavolo dei vincitori, secondo una politica inaugurata da Cavour con la Guerra in Crimea. Invece venne subito a galla l’inadeguatezza dei mezzi e l’impreparazione della classe politica e di quella militare che causarono un elevatissimo numero di vittime e di feriti, che cambiò il corso della politica mondiale e favorì le avventure totalitarie. Milioni di contadini, di operai ed artigiani furono strappati dalle loro case e mandati a combattere e a morire per motivi che neppure conoscevano, soggetti ad una spietata disciplina militare e imputati di essere rei e codardi per ogni attacco fallito e puniti con la decimazione che consisteva nella fucilazione di un soldato estratto a sorte su ogni dieci! Molti venivano dal Sud, capivano solo i loro dialetti e gli ordini degli ufficiali dovevano essere tradotti. Nelle trincee ebbero modo per la prima volta dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia , di conoscersi: i siciliani con i romani, i napoletani con i veneti, i sardi con i toscani ecc… affratellandosi subito.

Il 24 maggio segnava l’inizio di una guerra che si sperava rapida ma che invece durò quattro anni. Basta riguardarsi il film con Gian Maria Volontè, “Uomini contro” per rendersi conto del clima esistente fra le trincee alpine.

Per sollevare il morale dei soldati e di tutta l’Italia provvida fu la canzone di E A Mario, che per un periodo dopo l’8 settembre del 1943 fu scelta come Inno nazionale.
E. A. Mario, pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta (Napoli, 5 maggio 1884 – Napoli, 24 giugno 1961), di famiglia poverissima, a 10 anni apprese a suonare bene il mandolino e imparò a leggere la musica da solo. Si impiegò nelle Regie Poste Italiane a Napoli, incarico che mantenne per tutta la vita. Ogni tanto veniva sospeso per scarso rendimento, ma in realtà era una star delle poste napoletane. La sua passione erano le canzoni di cui scriveva parole e musica. E’ autore fra l’altro di Tammurriata Nera e di Santa Lucia luntana, oltre la celeberrima Leggenda del Piave.

Della ricorrenza del 24 maggio non se ne è ricordato nessuno, oppure mi è sfuggito, e dei giornaloni solo Repubblica del 24/5/2021 se ne è ricordata, sia pure in ultima pagina nella rubrica “ Accadde Oggi” , ma come seconda notizia, perché la prima era riservata al ricordo di una sfida enologica!
E’ vero che il mondo è distratto da altre cose, come l’epidemia da Covid e specialmente dalla tragedia della funivia dovuta a quanto pare alla conoscenza del difetto esistente coniugata con la volontà di non chiudere l’impianto per non privarsi del guadagno di una giornata festiva, in funesto omaggio al verso di Seneca “Quod non mortalia pectora coges, auri sacra fames, che significa “a cosa non spingi i petti mortali, miserabile cupidigia dell’oro“.
Ma anche durante la prima guerra mondiale imperversava una forse ben più tremenda epidemia, la cosiddetta “spagnola” che alcuni dicono, causò più vittime dei caduti in guerra.

L’alibi della burocrazia borbonica che blocca tutto anche il PNRR

Sul PNRR, quel coso là, quel piano nazionale che dovrebbe salvare l’Italia post Covid, pesa come una spada di Damocle la capacità della Pubblica Amministrazione di operare presto e bene. Ne prende atto lo stesso PNRR nel quale c’è scritto papale papale ( pag 44) che “esistono norme estremamente articolate e complesse stratificate nel tempo in maniera poco coordinata e spesso conflittuale”. Quindi la realizzazione del piano potrebbe essere ostacolato o vanificato da una burocrazia infingarda e pre – moderna e dall’esistenza di norme che configgono fra loro.

Cos’è la burocrazia e perché non è borbonica
Per burocrazia, letteralmente “il potere degli uffici”, si intende l’obbligo della Pubblica Amministrazione della realizzazione dei fini pubblici individuati dalle istituzione con provvedimenti normativi ( leggi, decreti ecc) o regolatori (regolamenti, circolari, ordinanze ecc).
Spesso tutto questo è condito dall’aggettivo “borbonico”, perchè una burocrazia inefficace ed inefficiente non può che essere borbonica. Ciò si verifica principalmente quando la politica è debole oppure è debole ed incompetente. Allora in questo caso si affida ai demiurghi che in genere sono burocrati di grande e grosso spessore che poi si troveranno a scontrare con la burocrazia da cui provengono ma soprattutto si trovano invischiati da una rete di norme che ne impediscono perfino un ordinario funzionamento. Leggi che finchè vigono non possono essere ignorate dai soggetti delle pubbliche amministrazioni, i quali firmano un atto solo se tutto è perfetto ed in regola con tutte le formalità previste e prescritte. Il funzionario che oggi prendesse una decisione magari di buon senso incorrerebbe in una serie di reati a partire dall’abusato abuso d’ufficio la cui segnalazione magari proviene dal collega con il quale va a prendere il caffè, usando la delazione anonima, chiamata ora più romanticamente in inglese, Whistleblowing come è d’uopo anche se il Regno Unito è sortito dalla Comunità Europea.
Ma nell’attribuire l’inefficienza alla burocrazia perché di matrice borbonica, si commette un errore di utilizzo di un solito luogo comune senza aver fatto alcuna verifica, anche superficiale. La burocrazia borbonica, formata da valenti uomini professionalmente eccellenti, era, nel contesto in cui c’erano i Borbone, molto efficiente e l’aver avuto per circa un decennio dei re francesi, Giuseppe Bonaparte e Giacchino Murat, le cose migliorarono ulteriormente per l’adozione del modello francese. L’istallazione del telegrafo in tutte le province inoltre permise la comunicazione celere ed univoca di disposizioni dal centro alla periferia e di richieste dalla periferia al centro.
L’impianto della PA italiano sostanzialmente è quello sabaudo piemontese esteso unilateralmente dappertutto nel 1861, data della proclamazione del Regno di Italia. Essa si fonda sul formalismo giuridico. Non a caso qualcuno suggerì di non assumere più laureati in legge nei ministeri, ma solo esperti informatici e di organizzazione aziendale.



Un esempio per tutti.
Sono circa vent’anni che è stato deciso il raddoppio della linea ferroviaria sul versante adriatico, ma non si riesce a farla per motivi vari, fra cui la tutela di una specie di passero che nidifica nei pressi di Falconara marittima, oppure l’istituzione dei treni ad alta velocità da Salerno in giù, verso Lecce da una parte e verso Trapani dall’altra. Se ne parla anche qui da un ventennio e si ripropone con il PNRR.
Un esempio dell’efficacia dei Borbone. Prendiamo la costruzione del primo treno italiano: sulla tratta Portici – Napoli di cui si servì Garibaldi per fare il suo ingresso trionfale a Porta Nolana..
L’idea della ferrovia era partita nel 1836, i lavori cominciarono l’8 agosto del 38 ed il 4 ottobre dell’anno successivo, nel 1839 fu inaugurato il primo tratto da Portici-Granatello fino a Napoli¬ – Porta Nolana. In soli tre anni la ferrovia, una cosa mai fatta in Italia fu ideata e realizzata e tenendo conto dei mezzi tecnici e della mentalità di allora, fu un tempo assolutamente brevissimo. Qualche anno dopo la linea fu prolungata fino a Nocera ed a Salerno; nel 1840 fu aperta al traffico la Napoli-Caserta e si progettò la realizzazione di una rete per collegare con strade ferrate tutte le regioni meridionali. Progetto che non potè essere realizzato per avvenuto decesso del regno.
La PA ha bisogno di regole per evitare soprusi ed arbitri

La necessità che la Pubblica Amministrazione abbia regole certe fu individuata già a Max Weber nel 1920 in Economia e società’ – pubblicato postumo. La “burocrazia” è un unico “modo” razionale di gestire qualunque tipo di “potere”, e non devono travalicare il confine dei propri compiti – che e’ quello di dare attuazione professionale agli ordini dei propri vertici. Weber individua una patologia grave proprio nel pericolo che il potere amministrativo si sostituisca al potere del Parlamento, sfruttando la sua superiore preparazione e continuità professionale rispetto ai vertici politici. Weber descrive il rapporto ottimale fra politici e funzionari, pensando al modello inglese. La pubblicità dell’amministrazione, ottenuta attraverso un effettivo controllo del Parlamento, e’ ciò che si deve richiedere come condizione preliminare ( crf EticaPA ).
Poi c’è il problema degli atti normativi

Soppressione di “leggi inutili”
Nel febbraio 2009 l’allora ministro della semplificazione, dicastero creato ad hoc per risolvere il problema, Roberto Calderoli, annunciò di aver soppresso 29000 leggi inutili, il cui mantenimento costava 2.000 euro all’anno, per un risparmio totale che sarebbe ammontato, affermò Calderoli, senza dimostrarlo comunque, a 58.000.000 di euro l’anno. Per un maggior impatto mediatico l’anno dopo, a marzo del 2010 lo stesso si esibì con un rogo acceso in una caserma di pompieri dando simbolicamente fuoco a 375.000 leggi abrogate in 22 mesi di legislatura, raccolte in circa 150 scatole contenenti i soli titoli. Le norme più vecchie risalivano al 1861 cioè alla nascita del Regno d’Italia; secondo il governo di allora, tale operazione di taglio delle leggi avrebbe permesso di risparmiare 787 milioni di euro l’anno. Le leggi rimaste, sarebbero dovute essere riorganizzate a loro volta in testi unici suddivisi per settore. I testi unici non sono mai stati scritti e la situazione dal 2010 in poi non è per niente migliorata.
Allora con Dpcm 12 giugno 2013 ( oggi sappiamo tutti cos’è un Dpcm) venne istituito un Comitato interministeriale per l’indirizzo e la guida strategica delle politiche di semplificazione. il decreto si prevede che il Comitato entro il 31 marzo di ogni anno:

  • predisponga un piano di azione per il perseguimento degli obiettivi del Governo in tema di semplificazione, di riassetto e di qualità della regolazione per l’anno successivo,

– sentito il Consiglio di Stato, venga approvato dal Consiglio dei Ministri e trasmesso alle Camere;

  • verifichi, durante l’anno, lo stato di realizzazione degli obiettivi, che viene reso pubblico ogni sei mesi;
  • svolga funzioni di indirizzo, di coordinamento e, ove necessario, di impulso delle amministrazioni dello Stato nelle politiche della semplificazione, del riassetto e della qualità della regolazione. Una classica grida manzoniana.
  • Il Comitato è presieduto dal Presidente del Consiglio, che può delegare le relative funzioni al Ministro per le riforme e l’innovazione nella pubblica amministrazione;
  • è composto, oltre che da quest’ultimo, dai Ministri per gli affari regionali e le autonomie locali, per le politiche europee, per l’attuazione del programma di Governo, dell’interno, dell’economia e delle finanze, dello sviluppo economico, nonché dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Segretario del Consiglio dei ministri.
  • Ogni componente del Comitato può delegare la propria partecipazione ad un Vice Ministro o ad un Sottosegretario.

Al fine di favorire il raccordo con il sistema delle autonomie, il Tavolo è istituito presso la Conferenza unificata. E’ composto dai rappresentanti delle categorie produttive e delle associazioni di utenti e consumatori, nonché da rappresentanti dei Ministeri, della Conferenza dei Presidenti delle Regioni, dell’ANCI, dell’UPI e dell’UNCEM. Il Tavolo, previsto dall’articolo 5 del DPCM istitutivo del Comitato interministeriale, è stato istituito con un ulteriore DPCM in data 8 marzo 2007.

Supporto tecnico al Comitato
È assicurato dall’Unità per la semplificazione

L’Unità per la semplificazione è presieduta dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio – Segretario del Consiglio dei ministri, che può delegare le relative funzioni al Segretario generale della Presidenza del Consiglio – Vice Presidente dell’Unità in coabitazione con il Capo del Dipartimento per gli affari giuridici e legislativi della Presidenza del Consiglio. Cioè una cosa più complicata per proporre la semplificazione non la potevano inventare.
Infatti cosa abbia prodotto dal 2013 ad oggi non è dato sapere. Ci riproviamo con il PNRR!

Cambiare il nome ad una strada può essere pericoloso, ma non sempre per motivi politici.

Supr Maria Laura Mainetti

Il Comune di Chiavenna, un comune abbastanza piccolo con circa 7000 abitanti, in provincia di Sondrio, Lombardia, come ha riportato bellamente un giornalone a tiratura nazionale, avrebbe deciso di cambiare nome ad una strada. Gli abitanti della strada in questione, vivamente allarmati, hanno scritto una loro petizione per scongiurare l’avvenimento. Non perché ce l’abbiano con la persona che il Comune vorrebbe ricordare ed omaggiare, ma per tutt’altri e più banali motivi. ll Comune vuole intitolare una strada a suor Maria Laura Mainetti, una religiosa e educatrice italiana della Congregazione delle Figlie della Croce, Suore di Sant’Andrea, nata a Colico, 20 agosto 1939 e morta a Chiavenna il 6 giugno 2000, assassinata da tre ragazze durante un rito satanico. Lo scorso anno si è appena chiuso il processo di beatificazione processo di beatificazione si è aperto nel 2008 e chiuso nel 2020 e la proclamazione è prevista per il 6 giugno 2021.
Gli interessati temono, pur abitando in un luogo dove si conoscono probabilmente tutti, le disavventure kafkiane che potrebbero incorrere in questo semplice cambio di domicilio o residenza e propongono, in alternativa, di intitolare alla prossima Beata un giardino pubblico. Nel suo pezzo un noto articolista de il Corriere, perché di questo “giornalone” si tratta, gli altri sono la Stampa e La Repubblica, ricorda come la petizione per cambiare nome al “Corso Unione Sovietica” a Torino, raccolse tre sole firme (nessuna di Torino), nonostante vi abitassero e vi abitino tuttora centinaia di anticomunisti, rassegnati a tenersi Stalin sui documenti pur di non perdere l’anima tra le scartoffie.
Quindi questo è uno dei motivi per cui si va con i piedi di piombo quando si tratta di cambiare nome anche ad un viottolo qualsiasi.

Le strade ed i numeri civici
Ma come nascono gli indirizzi ed in particolar modo i numeri civici, la cui assenza, prima dell’invenzione delle e-mail, faceva impazzire i postini?
In un piccolo borgo, un villaggio di campagna o una frazione di una città, trovare una persona era relativamente facile. Ci si orientava prendendo qualcosa a riferimento, una chiesa, un monumento, un palazzo nobiliare, un’osteria eccetera. Le strade in genere non portavano nessun nome né numerazione se non quello abusivamente affibbiato dagli abitanti. Poi si chiedeva casa per casa e generalmente l’impresa aveva esito positivo.
Diversa era la questione se si doveva trovare una persona in un agglomerato urbano un po’ più vasto. Allora si cercarono dei sistemi meno approssimativi per risalire alle abitazioni dei cittadini. La cosa aveva una particolare importanza per i rappresentanti del potere anche al fine di controllare la popolazione.
Così a Milano nel 1786 il ministro austriaco Wilczeck, per disposizione di Giuseppe II, imperatore d’Austria, incaricò il marchese Ferdinando Cusani Visconti, allora ‘giudice delle strade’ milanesi, di provvedere all’affissione di una targa, ad ogni angolo di strada, col nome della via e di assegnare a tutte le case, un numero civico univoco. Una particolare curiosità era costituita dalla cosiddetta numerazione “teresiniana” dal nome dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa. La numerazione si basava su un modello circolare progressivo senza fine. Dando il n. 1 al palazzo del governo poi si continuava in cerchi sempre più vasti, con gli edifici attigui fino ad arrivare all’estremo limite periferico della città. In quel periodo Milano aveva circa 5000 edifici perché la numerazione arrivava a quel numero.
A Napoli si provvide 6 anni dopo quando nel 1792 Ferdinando IV di Borbone, emanò un editto per la creazione dei numeri civici e delle targhe con i nomi delle strade.

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