I parroci fortunatamente non erano e non sono tutti dei Don Abbondio. Allora forse erano meno ferrati in teologia e poco abili nelle dispute filosofiche, ma se avevano carisma, costituivano il perno delle loro comunità. Non solo svolgevano i doveri legati al loro ruolo come dire la messa, effettuare matrimoni senza rifiutarsi ecc… , ma fornivano attività di “patronato” nel disbrigo di qualsiasi pratica burocratica, a fronte delle quali, quelle di oggi, sono tutta acqua fresca!
Come in ogni regola ci sono le eccezioni, costituite dai preti molti impegnati nel sociale, i cosiddetti “preti faticatori” che deposti i paramenti in sacrestia si mescolavano col proprio gregge per risolverne, o cercare di farlo, i loro problemi. Fra questi, a pieno titolo si può ascrivere Vincenzo Romano, che poi è stato anche santificato. Vincenzo Romano nacque il 3 giugno 1751 a Torre del Greco. Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, si dedicò all’assistenza dei poveri, degli ammalati e dei tanti marinai torresi che battevano i mari per lavoro, tanto da meritarsi l’appellativo di “celebre faticatore” e “operaio instancabile”. Dal 1796 al 1831 resse, prima come economo curato e poi (dal 1799) come preposito, la Parrocchia di Santa Croce, che comprendeva allora l’intera città di Torre del Greco, la più popolata del territorio di Napoli.
La terribile eruzione del Vesuvio del 15 giugno 1794, che distrusse quasi completamente la città e la chiesa parrocchiale, mise in luce la sua fibra apostolica. Dice Piero Colletta nella sua Storia « che fu visto dalla costa del monte colonna di fuoco avanzarsi in alto, aprirsi e poi per proprio peso cadere e rotolare sulla pendice, saette lucentissime e lunghe uscenti dal vulcano si perdevano in cielo, globi ardenti andavano balestrati a grande distanza, il rombo sprigionato in tuono » ed essendo di Giugno le barche torresi si trovavano alla pesca del corallo, che provocò un ulteriore dolore, perché quando i pescatori tornarono, invece della folla festante trovarono la città ridotta a un cumulo di macerie e arse le. Da Ferdinando IV di Borbone fu offerto ai dispersi abitanti di stabilirsi in luoghi più sicuri dalle offese del Vesuvio e parimenti sulla riva del mare. Ma i torresi rifiutarono. Egli si dedicò subito alla difficile opera di ricostruzione materiale e spirituale della città e della chiesa, che volle riedificare più grande e più maestosa ed in breve tempo, per solo amor di patria, sopra il suolo ancora bruciante, sorse nuova città più bella e più adorna di prima. Morì il 20 dicembre 1831. Il 6 marzo 2018 papa Francesco, lo santificò, celebrando lui stesso la santificazione in San Pietro a Roma il 14 ottobre 2018. Il suo corpo riposa nella Basilica di Santa Croce, dove, l’11 novembre 1990 si è recato a venerarlo san Giovanni Paolo II, durante la sua visita pastorale nel napoletano.
Nel 1800 il Nord impose l’Unità, nel 2024 vuole scioglierla. In questi giorni la cosiddetta Autonomia differenziata fra le Regioni italiane, muove i primi concreti passi in Parlamento. Un salto all’indietro di circa 160 anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia.
Gli avvenimenti politici economici e sociali del 1800 sono ancora avvolti nella paludata mitologia del Risorgimento che avrebbe dato corpo all’”unanime desiderio del popolo italiano di unificarsi”. In realtà non fu proprio così. L’unità fu fatta dall’aggressione di uno Stato contro un altro con il quale non era in guerra né esisteva alcun conflitto. Si mandò avanti un corpo di “volontari” ben finanziato con un contorno di autentici patrioti volontari, comunque rappresentanti della nascente borghesia economica. Poi l’operazione fu condotta direttamente da soldati regolari dello Stato invasore. Allora, invece di sanzioni, l’Europa unanime plaudì l’operazione. Comunque, cosa fatta capo ha e quindi dopo il primo il Regno d’Italia che fu una estensione del Piemonte, dopo la lotta antifascista nacque poi la Repubblica Italiana che, è una e indivisibile. Ora che i costi collettivi nazionali rischiano di sopravanzare i benefici territoriali in alcune parti, si pensa a cambiare registro senza mettere in discussione (formalmente) l’Unità d’Italia; basta creare un’autonomia differenziata. In soldoni estendere la già esistente formula delle Regioni a Statuto speciale a tutte le altre, con una novità non detta ma ovvia, se no l’operazione non avrebbe senso per chi l’ha ideata, cioè quella che i soldi si spendono dove si creano. Gli altri potranno sempre chiedere aiuti direttamente alla UE. Indirettamente potrebbe essere uno sprone per uscire dall’accidia delle incompetenze, menefreghismo e pratiche consociative non sempre limpide poste in essere nel Sud (altro che best practice!), come si predica da più parti. Invece i fatti del Covid che abbiamo tutti dimenticato, ha reso evidente che occorre riaccentrare certi settori, come quello della Sanità, per esempio, se no tanto vale battersi, come fanno alcuni vetero nostalgici, per ricostruire il Regno delle Due Sicilia. Certamente peggio di come stanno oggi i meridionali non potrebbero stare!
La prima differenziazione la fece Bassanini nel 2001
Si pensa di compiere questa operazione senza modificare la lettera dell’attuale Costituzione, utilizzando le norme che essa contiene. Per esempio appigliandosi all’art 117 che già è stato sbadatamente utilizzato altre volte, aprendo una crepa nel tessuto unitario. Infatti proprio quelle forze politiche che ora si strappano i capelli nel 2001 vararono la riforma del “Titolo V” della Costituzione italiana, anche nota come “riforma Bassanini”. Riforma che ha introdotto il principio dell’Autonomia differenziata e che ha prodotto nefasti cambiamenti nella struttura del governo territoriale italiano, trasferendo molte competenze dal governo centrale alle regioni e alle autonomie locali dando origine al fenomeno dei “Governatori” regionali, che da semplici presidenti si sono trasformati in caudilli, tanto al nord, quanto al Sud, ma quelli del sud a volte sono più pittoreschi… L’art 117 della Costituzione dice che, in alcune materie espressamente indicate, lo Stato dà una competenza concorrente limitandosi a precisare i principi fondamentali inderogabili (a cui tutte le Regioni devono uniformarsi); le Regioni disciplinano nel dettaglio la materia attenendosi ai principi fondamentali fissati dallo Stato.
I Lea e i Lep
Fra i principi fondamentali inderogabili (a cui tutte le Regioni dovranno uniformarsi) sono centrali i LEA a cui ora si aggiungono anche i LEP che sono diventati importanti ora che si pensa di modificare l’ordinamento statale dando ancora più poteri alle Regioni, invece di fare un percorso opposto come ha messo in evidenza la disarmonia funzionale ( diciamola così) espressa dalle Regioni nel corso della pandemia Covid per il periodo 2020/22, come già detto prima. Vediamo da vicino i Lea ed i Lep
I Livelli essenziali di assistenza (LEA)
I Livelli essenziali di assistenza (LEA) sono le prestazioni e i servizi che il Servizio sanitario nazionale (SSN) è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale (tasse). Per garantire l’aggiornamento continuo, sistematico, su regole chiare e criteri scientificamente validi dei Livelli essenziali di assistenza, è stata istituita la Commissione nazionale per l’aggiornamento dei LEA e la promozione dell’appropriatezza nel Servizio sanitario nazionale.
I Livelli essenziali delle prestazioni (LEP)
LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni) sono invece indicatori riferiti al godimento dei diritti civili e sociali che devono essere determinati e garantiti, sul territorio nazionale, con la funzione di tutelare l’unità economica e la coesione sociale della Repubblica, rimuovere gli squilibri economici e sociali (federalismo solidaristico) e fornire indicazioni programmatiche cui le Regioni e gli enti locali devono attenersi, nella redazione dei loro bilanci e nello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Sulla carta non c’è che dire, tutto perfetto, ma le difficoltà vengono proprio dalla formulazione letteraria. Da un punto di vista metodologico non è affatto semplice tradurre i diritti civili e sociali da garantire ai cittadini in indicatori e livelli di prestazioni effettivamente misurabili. Si tratta infatti di un processo che comporta una serie di passaggi non banali:
mappatura dei servizi erogati sul territorio da ciascun ente;
identificazione dei servizi in cui è necessaria la determinazione dei Lep;
valutazione dei livelli di spesa e dei servizi erogati per i settori interessati dai Lep;
determinazione dei costi e dei fabbisogni standard, in modo da stabilire se le risorse a disposizione dell’ente sono sufficienti per erogare il servizio in questione. In caso contrario, per calcolare a quanto ammontino le risorse aggiuntive. Il punto chiave è che per lo Stato non basta stabilire delle soglie adeguate sui servizi (ad esempio, se parliamo di servizi prima infanzia, il numero di posti offerti ogni 100 bambini residenti). Introdurre i Lep è infatti necessario anche per garantire l’offerta di un adeguato livello di servizi. Ciò ha evidentemente un costo: si pensi ai servizi con maggiore disomogeneità sul territorio nazionale, come gli asili nido e i servizi socio-educativi per la prima infanzia. Un esempio per tutto sulla realtà esistente: gli asili nido Il livello di copertura degli asili nido in Italia, definito come il numero di posti nei servizi educativi per 100 bambini residenti sotto i 3 anni, era del 26,6% nell’anno scolastico 2019/2020. Secondo il rapporto nazionale sugli asili nido promosso da “Con i Bambini e Openpolis”, a fronte di un Centro-Nord che con 32 posti ogni 100 bambini ha quasi raggiunto l’obiettivo europeo del 33% e dove in media 2/3 dei comuni offrono il servizio, nel Mezzogiorno i posti ogni 100 bambini sono solo 13,5 e il servizio è garantito in meno della metà dei comuni (47,6%). La differenza tra le due aree è di 18,5 punti. L’89% dei comuni dell’Emilia Romagna che offrono servizi prima infanzia nel 2019. Nel sud nello stesso anno sono il 22,8%.
Salvatore Fergola (Napoli, 24 aprile 1796 – Napoli, 7 marzo 1874) pittore italiano, è uno dei migliori esponenti della scuola di Posillipo fiorita a Napoli nel secondo decennio dell’Ottocento e formata da un gruppo di artisti particolarmente versati nel dipingere paesaggi.
Salvatore Fergola era un figlio d’arte. Il padre Luigi infatti era un bravo acquarellista e anche suo fratello Alessandro (1812-1864) è stato pittore di buon livello. Nei primi lavori è forte l’influsso di Jakob Philipp Hackert, sia nell’applicazione della tempera, sia nell’impostazione dei paesaggi da riprendere. Jakob Philipp Hackert (Prenzlau, Germania, 15 settembre 1737 – San Pietro di Careggi, 28 aprile 1807) è stato un pittore tedesco che lavorò molto in Italia. Era il più grande pittore di paesaggi dell’epoca e venne per questo assunto dalla Corte Borbonica. Ammesso all’Ufficio Topografico di Napoli, nel 1819 eseguì diversi dipinti per conto del duca di Calabria, il futuro re Francesco I. Dopo seguì la Corte prima a Castellammare di Stabia, poi a Caserta, a San Leucio, a Santa Maria Capua Vetere e ad Ischia, ritraendo i paesaggi. Tra le tele di questo periodo si distingue quella del varo del vascello “Vesuvio” (1825). Nel 1829, in occasione delle nozze, a Madrid, della principessa Maria Cristina di Borbone-Due Sicilie con il re Ferdinando VII di Spagna, fu al seguito della famiglia borbonica ed ebbe l’opportunità di visitare Siviglia, Cadice, Burgos, Toledo e Barcellona arricchendo la sua arte pittorica. Sulla via del ritorno si trattenne qualche mese a Parigi, ospite del duca d’Orléans, Luigi Filippo di Francia e di Carolina di Borbone-Due Sicilie, duchessa di Berry: in occasione del soggiorno francese Fergola ebbe modo di perfezionare ulteriormente il suo stile pittorico.
In breve divenne popolarissimo come illustratore degli avvenimenti e degli eventi più significativi del Regno, ma non riuscì ad ottenere la cattedra dell’Accademia di belle arti di Napoli, che venne assegnata nel 1838 a Gabriele Smargiassi, un altro esponente della scuola di Posillipo. Nonostante la delusione subita continuò a lavorare instancabilmente, partecipando nel 1839 alla mostra borbonica in Spagna, con “Veduta della sorgente del Sarno”, “Interno della cattedrale di Toledo”, “Briganti sorpresi dalla gendarmeria nella foresta”. Nel 1841 presentò Interno gotico del chiostro di San Giovanni de’ Re a Toledo, Esterno gotico della cattedrale di Burgos, Montevergine nel giorno della festa. Ma il quadro per cui è ricordato è la tela che dipinse nel 1840 per immortalare l’epico avvenimento dell’ottobre del 1839 sull’ Inaugurazione della Ferrovia Napoli Portici, la prima strada di ferro in Italia. Nel quadro troviamo una sublime rappresentazione del treno che corre lungo la costa – il panorama del golfo di Napoli sullo sfondo e la festosa presenza del pubblico, appartenente ai diversi ceti del Regno.
I Borbone, riavuto il Regno sottrattogli da Napoleone, attuarono un vasto programma di ammodernamento tecnologico, e crescita economica tale da far pensare che il Regno delle Due Sicilie potesse lui essere il protagonista dell’Unità della Penisola. L’ idea che Borbone potessero loro unificare la penisola non entusiasmò mai i regnanti napoletani, specie Ferdinando II. In proposito avrebbe affermato che gli bastava un regno piccolo ma prospero, protetto dall’acqua salata (il Mediterraneo) e dall’acqua Santa ( il Regno dello Stato Pontificio). Fergola è stato un grande interprete pittorico del rinato fervore tecnologico del mezzogiorno dipingendo diverse opere che rivelano fiducia nelle nuove istanze di progresso e modernità. Dopo l’unità d’Italia fu rapidamente messo da parte perché era un testimone vivente di un regno che non era stato per niente la negazione di Dio.
Persiste la povertà anche se nel post-Covid il Sud aggancia la ripresa per lavoro precario e bassi salari.
LA Svimez ha presentato il suo Rapporto annuale sulla situazione del Meridione d’Italia il 5 dicembre 2023 dove si evincono ancora il persistere di un grande disagio economico.
La SVIMEZ – Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno – è un’Associazione privata senza scopi di lucro il cui oggetto sociale è lo studio delle condizioni economiche del Mezzogiorno al fine – come recita il suo statuto – di proporre concreti programmi di azione e di opere intesi a sviluppare nelle regioni meridionali quelle attività industriali che meglio rispondano alle esigenze accertate.
fabbrica dismessa nel sud
Secondo il Rapporto, la dinamica del PIL italiano nel biennio 2021-2022 si è mostrata uniforme su base territoriale. L’economia del Mezzogiorno è cresciuta del 10,7%, più che compensando la perdita del 2020 (–8,5%). Nel Centro-Nord, la crescita è stata leggermente superiore (+11%), ma ha fatto seguito a una maggiore flessione nel 2020 (– 9,1%). La novità di una ripartenza allineata tra Sud e Nord sconta però l’eccezionalità del contesto post-Covid per il tenore straordinariamente espansivo delle politiche di bilancio e la diversa composizione settoriale della ripresa.
Doppio al Sud l’impatto dell’inflazione sui redditi delle famiglie
L’accelerazione dell’inflazione del 2022 ha eroso soprattutto il potere d’acquisto delle fasce più deboli della popolazione. Sono state colpite con maggiore intensità le famiglie a basso reddito, prevalentemente concentrate nelle regioni del Mezzogiorno. Nel 2022 l’inflazione ha eroso 2,9 punti del reddito disponibile delle famiglie meridionali, oltre il doppio del dato relativo al Centro-Nord (–1,2 punti)
Rispetto alle altre economie europee, in Italia la dinamica inflattiva si è ripercossa in maniera significativa sui salari reali italiani, che tra il II trimestre 2021 e il II trimestre 2023 hanno subìto una contrazione molto più pronunciata della media UE a 27 (–10,4% contro –5,9%), e ancora più intensa nel Mezzogiorno (–10,7%). La ripresa dell’occupazione al Sud non argina il disagio sociale
Rispetto al pre-pandemia la ripresa dell’occupazione si è mostrata più accentuata nelle regioni meridionali: +188 mila nel Mezzogiorno (+3,1%), +219 mila nel Centro-Nord (+1,3%). In tema di precarietà del lavoro, nella ripresa post-Covid dopo il «rimbalzo» occupazionale è tornata a inasprirsi la precarietà. Dalla seconda metà del 2021, è cresciuta l’occupazione più stabile, ma la vulnerabilità nel mercato del lavoro meridionale resta su livelli patologici. Quasi quattro lavoratori su dieci (22,9%) nel Mezzogiorno hanno un’occupazione a termine, contro il 14% nel Centro-Nord.
Altra fabbrica dismessa
L’incremento dell’occupazione non è in grado di alleviare il disagio sociale in un contesto di diffusa precarietà e bassi salari. Nonostante la crescita dell’occupazione, nel 2022 la povertà assoluta è aumentata in tutto il Paese. La povertà ha raggiunto livelli inediti. Nel 2022, sono 2,5 milioni le persone che vivono in famiglie in povertà assoluta al Sud: +250.000 in più rispetto al 2020 (–170.000 al Centro-Nord). La crescita della povertà tra gli occupati conferma che il lavoro, se precario e mal retribuito, non garantisce la fuoriuscita dal disagio sociale.
Nel Mezzogiorno, la povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata è salita di 1,7 punti percentuali tra il 2020 e il 2022 (dal 7,6 al 9,3%). Un incremento si osserva tra le famiglie di operai e assimilati: +3,3 punti percentuali. Questi incrementi sono addirittura superiori a quello osservato per il totale delle famiglie in condizioni di povertà assoluta.
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