Napoli stanotte: Considerazioni borboniche sulla trasmissione

La trasmissione natalizia del bravo divulgatore televisivo Alberto Angela, di Piero come si diceva una volta, prima che l’obbligo dell’indicazione della paternità e maternità fosse abolita dai documenti anagrafici, è affascinante e va giù tutta d’un fiato. La cancellazione di quest’obbligo avvenne con la riforma del diritto di famiglia del 1975 a tutela di coloro che non potevano vantare discendenze illustri ed erano bollati col triste marchio di N.N, abbreviazione latina di: (pater ) Non notum che marchiava a vita qualsiasi giovane di belle speranze e che spingeva anche all’emigrazione.
Chi non ricorda la celebre poesia di Eduardo De Filippo, “Vincenzo De Pretore” dove si racconta la tragedia di un figlio di padre ignoto. Ed Edoardo lo fa con la maestria dolorosa di chi è stato personalmente colpito da questo marchio d’infamia. Disgrazia doppia per il drammaturgo napoletano, perchè suo padre Eduardo Scarpetta, era sconosciuto per l’anagrafe ma conosciutissimo in tutto il mondo anche per la sua famiglia allargata ante litteram.
Viceversa, chi invece poteva vantare una sfolgorante discendenza, l a esibiva ad ogni pié sospinto. Basta ricordare il marchese de La Livella di Totò che ebbe natali illustri, nobilissimi e perfetti, da fare invidia a Principi Reali … ma stiamo andando fuori tema.

“Stanotte a Napoli” la trasmissione televisiva andata in onda su Rai uno a Natale, è stata coronata da un enorme successo: i dati dell’Auditel parlano di più di 4 milioni di telespettatori con uno share del 25%. Ormai anche le trasmissioni del servizio pubblico, da quando è in campo Mediaset e più che mai ora con le piattaforme come Netflix, vengono pensate e realizzate solo in funzione di questi due elementi, cosa che a un servizio che si regge ancora su un abbonamento forzoso, non dovrebbe poi interessare più di tanto. Comunque la trasmissione si può inserire facilmente in quelle che sono considerate di divulgazione di modelli culturali e quindi fanno parte ad un titolo della televisione pubblica. E’ una dispensa dei Fratelli Fabbri editori fatta in televisione. I Fratelli Fabbri Editori furono i primi a lanciarsi con successo nella divulgazione di massa con la pubblicazione di illustratissime dispense a colori con poco testo di facile comprensione.

Pastori a San Gregorio Armeno

D’altra parte considerato il giorno in cui è stata trasmessa, Natale non poteva essere altrimenti: la solita cartolina su Napoli con i suoi collaudati stereotipi: il mare la bellezza le realizzazioni dei primi re Borbone la musica e le canzoni, la storia della Sirena Partenope, Pompei ed Ercolano ed infine i presepi di Via San Gregorio Armeno ed una capatina misticheggiante nel Cimitero delle Fontanelle dove sono sepolti i defunti della grande peste del 1656, il culto ed il miracolo di San Gennaro ed il suo tesoro, la Cantata dei Pastori e Natale in Casa Cupiello. Unico guizzo verace quando è stato presentato il Monastero di Santa Chiara e la canzone cantata magistralmente da Ranieri Massimo. E’ una canzone dell’immediato dopoguerra dove Napoli era distrutta fisicamente e moralmente e sembrava che non si dovesse più riprendere.

Angela già altre volte in simili trasmissione mi pare “Quark” o “Ulisse” aveva evidenziato come il regno duo siciliano non era un regno tutto destruente cioè distruttivo ma un regno costruttivo che ha arrecato benefici alla popolazione.
Prudentemente lo stesso Angela ha esordito sottolineando come Napoli in effetti è una realtà con molte ombre e luci mettendo le mani avanti sulle probabili accuse di pura oleografica televisiva. Bisogna riconoscere che lo sforzo non è stato da poco anche in considerazione che è appena terminata una serie apologetica televisiva su un aspetto non proprio idilliaco della vita partenopea.
I borbonici di tutte le categorie, reazionari, progressisti e quelli inconsciamente borbonici eccetera che hanno visto Stanotte a Napoli, non hanno che riapprezzato quelle realizzazioni fatte in un contesto storico che era quello stagnante dopo il Vicereame spagnolo e quello non meno predatorio dell’impero austroungarico. Ma la crescita di Napoli sembra di essersi fermata lì, come illustrava un gigionesco Giancarlo Giannini, in un improbabile Carlo III in smoking in uso solo dall’inizio del 1900.
In effetti sorvolando sugli interventi di matrice favorevole alla popolazione a Napoli, lasciando da parte la mitica ferrovia, come le fognature l’illuminazione pubblica gas il telegrafo elettrico il risanamento dei vasci (bassi: abitazioni monolocale) eccetera, sembra che dal periodo dei Borboni ad oggi l’unica cosa positiva che c’è e quello della mostra lì dei presepi napoletani a San Gregorio Armeno come se quella fosse l’unico volano di sviluppo della società.
La trasmissione è stata una mano santa per i siti riprodotti in tivù. Quando Angela presenta la galleria Umberto I, rimessa a nuovo per l’occasione si può gridare al miracolo perché si trova in uno stato di degrado indicibile che ha causato anche qualche incidente mortale e dove non si può addobbare un albero di Natale senza che venga distrutto o rubato. E’ come quando una personalità illustrissima decide di visitare qualche città o borgo sperduto. Allora lavori che non si son potuti fare in anni, vengono fatti subito e questo è uno dei pochi vantaggi concreti ( e di poca durata) che ne hanno i cittadini da queste kermesse.
La trasmissione salta pari pari tutta l’epopea post unificazione d’Italia come sappiamo abbondantemente, non solo salta il periodo in cui furono represse nel sangue le aspettative del popolo napoletano che da quella unità si aspettava qualcosa di più ma si disperse quel patrimonio di risorse umane che a favore o contro o il trono borbonico si era nato, cresciuto e consolidato. L’economia ridivenne languente ed i giovani e gli elementi agili come quelli di oggi, lasciarono il sud ed emigrarono a nord, mentre i contadini sopravvissuti ai cannoni di Bava Beccaris presero la volta delle Americhe.
Oggi i nipoti di quegli esodati dal sud al nord neppure ricordano, mentre i più anziani con nostalgia e luccicore agli occhi magari dalle fredde città del Nord, parlano di un’età dell’oro che sarebbe stato il regno meridionale e la sua capitale.

Tutto bello, magnifico, rutilante!
Il problema è di quelli che a Napoli ci stanno e ci devono vivere e che pensano che qualcuno ( esterno) debba (ri)costruire una città che sia non solo degna di questo glorioso passato ma che esso deve essere un punto di partenza di un seme fertile per un nuovo altrettanto degno futuro. Ma una nuova Partenope non può essere un qualcosa di simile al parco che doveva riqualificare Napoli il giorno dopo che l’Ilva di Bagnoli fu chiusa fra danze e canti e sogni ed anche progetti concreti, per carità. Ma finite le danze i canti e i sogni, è rimasto poco forse la speranza che non è una cosa “data” esterna a chi spera, ma interna che devono dare la capacità come dicevano gli antichi filosofi greci di Napoli, di poter passare dalla potenza all’atto. Pare facile!

Non rovinateci e non roviniamoci anche il Natale 2021!

Nel 2019 un Natale come comanda Dio
L’ultimo Natale trascorso come Dio comanda, avrebbe esclamato Luca Cupiello che in materia se ne intendeva, è stato indubbiamente quello del 2019. Non mancò niente, il freddo quanto basta, i mercatini natalizi che solo a guardarli portano un’aria di spensierata gaiezza, i negozi rutilanti di luce, pieni di addobbi di Natale per preparare l’albero e in alcune case anche il Presepe.

Le filodrammatiche del Sud hanno preparato Natale in Casa Cupiello e la Cantata dei Pastori e i mercati, botteghe, supermercati e centri commerciali gremiti di gente affaccendata a comperare il cibo per il doppio pranzo della vigilia e del Natale. Nelle pescherie nuotavano pigramente anche i capitoni ormai soppiantati dagli astici e dalle aragoste ( ma congelate).
Messa a mezzanotte eccetera eccetera compreso coloro che hanno “messo il Bambino alla capanna” dopo la tradizionale processione casalinga con le candeline accese.

La Cina è vicina


Non si era ancora dissolto il fumo dell’ultimo biancale acceso per festeggiare la venuta del 2020 quando siamo stati raggiunti dalla notizia della strana malattia ai polmoni in una remota regione della Cina e dopo un po’ ci siamo realmente resi conto di quanto la Cina è vicina.
All’inizio del 2020 con le feste passate bene alle spalle, le notizie provenienti dal paese di Marco Polo non ci avevano spaventato più di tanto. Guardavamo un po’ diffidenti tutti coloro che avevano fattezze riconducibile ad orientali. Prudentemente smesso di andare negli economici ristoranti sino-nipponici a mangiare involtini primavera e sushi. Non eravamo spaventati perché avevamo alcune ferree convinzioni, rapidamente evaporate con l’incalzare della novella peste.

Biancali di capodanno

La principale è che non potevano ripetersi le scene descritte nelle varie pestilenze di cui si ha storica conoscenza, quella di Atene verso il 429 avanti Cristo, quella degli imperatori “antonini” del 165 dopo Cristo, quella descritta da Boccaccio scoppiata a Firenze nel 1348, quella di Milano nel 1630 e quella di Napoli del 1656!

L’illusione di una “cosa veloceda sconfiggere
La seconda convinzione poggiava sugli strabilianti progressi in campo medico e al miglioramento degli stili di vita igienico sanitario per cui in quattro e quattr’otto tutto sarebbe stato archiviato (pensavamo).
Di conseguenza le prime restrizioni sono state accolte senza particolari patemi d’animo, con canti e balli dai balconi e concomitante esibizione di striscioni con la scritta “ Ce la faremo”.


Un po’ come circa quaranta anni fa quando nell’ottobre del 1973 a causa della crisi petrolifera per effetto dell’embargo dell’OPEC, presero il via le ”Domeniche a piedi” a causa del divieto di circolazione imposto alle auto private. Fu un tripudio di biciclette nei centri storici, si rispolverarono carrozze e si videro cavalieri in sella a quasi focosi destrieri andare a zonzo per le vie cittadine, che lasciarono sull’asfalto copiose testimonianze del loro passaggio.


E invece ….
Invece abbiamo subito un durissimo lockdown, dovuto compilare ben 4 diverse tipologie di autocertificazione per poterci muovere da un posto all’altro, la necessità di ricorrere al lavoro a distanza e alla DAD per gli studenti, la chiusura di tutte le attività economiche ritenute non necessarie, come quello dei servizi, della ristorazione, del divertimento eccetera. Qualcuno ricorda, così per caso il dramma dei Circhi equestri, già perseguitati ma non aiutati dagli animalisti. I malcapitati lavoratori dei circhi si sono trovati senza attività e con animali da mantenere a carico e pochissima solidarietà.

La frattura fra i lavoratori garantiti e quelli in nero
Conseguente alla paralisi economica, la frattura nella società italiana è stata marcata e pesante e gli effetti si protrarranno ancora per parecchio tempo. Da una parte coloro ai quali lo stop economico non ha inciso granchè, trattandosi di lavoratori garantiti o super garantiti. Dall’altra tutti gli altri con nessun tipo di tutela che hanno vissuto una tragedia immane specie per chi non per loro scelta lavoravano in nero con scarsi aiuti del welfare ufficiale. Fra questi due blocchi sociali la differenza è stata enorme. I primi a disquisire se lo smart working non rovinava gli equilibri di coppia e a pretendere il congedo parentale, i secondi senza poter pretendere nessun congedo parentale perché senza lavoro, alla ricerca dei “buoni spesa” succedanei dei pacchi per mangiare come succedeva negli anni 50 quando nelle chiese si distribuivano dei pacchi contenenti pomodoro spaghetti e latte condensato e sopra c’era scritto “dono degli USA all’Italia” ( me li ricordo ancora).
Lo Stato è stato sollecito comunque a distribuire delle provvidenze che almeno hanno ridotto anche se parzialmente molte difficoltà.

L’illusione di avercela fatta

Poi verso l’estate del 2020 sembrava che cominciasse a “schiarare giorno“, a vedere la luce in fondo al tunnel, ma non avevamo fatto conto delle variazioni, specie la micidiale variante Delta. Partita dal Regno Unito, che uscito dalla UE con la Brexit ci aveva fatto questo cadeau, è dilagata velocemente ovunque. Quindi ad ottobre 2020 nuova quarantena obbligatoria per tutti e coprifuoco alle 22.
Niente Natale o meglio un Natale sotto tono poca voglia di festeggiare, per non parlare del veglione di Capodanno di fatto proibito.
Comunque i progressi della scienza non sono rimasti al palo e bruciando le tappe e per questo suscitando motivate perplessità sulla loro efficacia e sicurezza, sono stati approntati ben 5 vaccini. Due approntati da parte di Stati che molti Governi perché forse investiti direttamente da Dio, hanno giudicato poco affidabili, quello della Russia (Sputnik) e della Cina (Sinovax), e tre dal cosiddetto Big Pharma: Moderna, Pfizer, quello del viagra, e Astrazeneca. Questi cinque vaccini hanno eretto una diga contro il virus evitando un’ennesima ecatombe.

La forte campagna vaccinale italiana
Cambiato il governo, perché dal 1948 in Italia con ogni cambio di stagione, si cambia anche il governo, nominato Draghi presidente del consiglio e costui nominato il gen. Figliolo come dispensatore di vaccini, finalmente è partita la vaccinazione di massa, cui ha risposto il 90% della popolazione italiana. All’inizio un po’ perplessa sugli esiti delle inoculazioni dopo le polemiche su Astrazeneca, ma man mano che procedevano senza sfracelli, c’è stato un boom di vaccinati.
La curva ha cominciato a decrescere e noi a tirare un sospiro di sollievo, sollievo durato ahimé poco, perchè di fronte alla cosiddetta quarta ondata, che attualmente imperversa ovunque, un senso di sconforto si è IMPADRONITO DI TUTTE LE ANIME SENSIBILI, tranne le Cassandre di professione sempre in servizio permanente effettivo.
Anche quest’anno la storia si sta ripetendo, ma grazie ai vaccini lo scenario è diverso. L’estate è trascorsa tranquilla, settembre felice finchè nei paesi con scarsa percentuale di vaccinati, Romania Bulgaria, Russia, ma anche da quelli ad elevata percentuale come Israele e Gran Bretagna, la curva degli appestati è salita improvvisamente e minacciosamente. Intanto ci fa tremare il pensiero di nuove chiusure che ora sarebbero più letali della pandemia stessa, dal punto di vista psicologico, sociale, economico e politico e perfino sanitario, un cocktail pericoloso che potrebbe addirittura minare le istituzioni.
Per cui mentre si scoprono presunte miracolose medicine anticovid sulle quali è lecito avere al momento delle perplessità, è partita la campagna per la terza dose. Si farà anche quella, fine a quando, come coloro che hanno la pressione alta si prendono una pilloletta al giorno, ci faremo un booster mensile, cioè un richiamo ogni mese (o almeno ogni anno come per la vile influenza che nessuno menziona più)!

La questione dei no Vax
Nel frattempo, complice anche il prolungarsi dello stato di emergenza e in base ad varie motivazioni, in cui quelle giuste e comprensibili sono ormai largamente minoritarie, una moltitudine variegata che raccoglie agitatori di professione, reduci dei no TAV no Tap no inceneritori, no all’espianto delle piante di ulivo, non al raddoppio della ferrovia fra Ancona e Falconara marittima perché rovinano l’habitat di passeri e fringuelli, più disturbati vari, questo aggregato eterogeneo sotto i vessilli di no Vax e no Green Pass, si è assunto il compito di oscurare l’orizzonte anche del prossimo Natale per rovinarcelo.
Voglio ricordare che quando scoppio l’epidemia di colera a Napoli nel 1973 in 5 giorni si vaccinarono 900.000 persone con calma, ordine e senza proteste. A Napoli! Questo fatto, un borbonico progressista non può sottacerlo.
Negli ultimi tempi avevamo tralasciato un po’ di aspettare il bollettino quotidiano per vedere il numero dei nuovi contagiati, ma ora siamo di nuovo lì ad attendere con il cuore sospeso, contando i nuovi contagi ed i giorni che ci separano dalle feste di fine anno, sperando in un intervento provvidenziale che tutto freni e risolva.
Quindi speriamo quest’anno di potere fare un Natale come comanda Dio.

Fosse questo l’antidoto più efficace?

Il Plebiscito di Annessione del Regno delle Due Sicilie del 21 ottobre 1860

Piazza del Plebiscito – Napoli

Il 3 ottobre 1860, Vittorio Emanuele II, con una tempistica eccezionale perché avveniva immediatamente il giorno dopo l’epica battaglia del Volturno del 1 ottobre e proseguita in parte fino al 2 ottobre 1860, entrò ad Ancona per mettersi alla testa delle sue truppe, 46 battaglioni di 39.000 uomini, in sostanza per poter prendere militarmente possesso del Regno delle Due Sicilie e mettere da parte Garibaldi. In quell’occasione ebbe a proclamare solennemente:
Le mie truppe s’avanzano fra voi per affermare l’ordine: io non vengo ad imporre la mia volontà, ma a rispettare la vostra…” ma Cavour aveva già deciso l’annessione a prescindere se i napoletani la volessero o no, e si dette subito da fare per legalizzare in qualche modo l’illegittima ed illegale invasione di un regno con il quale il Piemonte non aveva mai avuto ufficialmente dissidi né aveva mai dichiarata nessuna ostilità.

Un plebiscito per mascherare l’annessione

Anche questa volta lo strumento utilizzato fu l’indizione dell’ennesimo plebiscito.
L’unica novità, che rendeva ancora di più illegittimo l’utilizzo delle strumento plebiscitario, è che il Regno delle Due Sicilie era quello di un regno legittimo, riconosciuto da tutte le diplomazie mondiali, non c’era stata rivolta di popolo contro il re e quest’ultimo non si era né dimesso né era fuggito col suo patrimonio all’estero ( infatti lo aveva lasciato nel caveau del Banco di Napoli che lo crediate o meno e non gli fu mai restituito, perché la condizione posta dal Piemonte fu quella di riconoscere legittimo l’esito del plebiscito ).
Infatti il plebiscito fu indetto mentre si combatteva ancora e inoltre l’esercito napoletano si preparava a vivere alcune delle sue pagine più gloriose nell’Assedio di Gaeta, contro i garibaldini e soldati piemontesi che questa volta combattevano assieme. Assedio che durò tre mesi mentre i piemontesi pensavano di sgominare i resti dell’esercito duosiciliano alla vigilia del plebiscito che era stato fissato per il 21 ottobre 1860. I fatti non andarono così.

La battaglia di Macerone
Il 20 ottobre 1860, alla vigilia della consultazione, sul valico del Macerone, ci fu l’ennesima battaglia di aggressione: I soldati borbonici erano comandati dal generale Luigi Scotti Douglas e l’esercito piemontese comandato dal generale Enrico Cialdini.

Macerone era un valico sull’Appennino che collegava l’Abruzzo con il Molise dove passava allora la strada che conduceva da Napoli a L’Aquila. I borbonici inferiori di numero persero la battaglia ma consentirono al resto dell’esercito di dirigersi sul Garigliano e a Gaeta.

Il plebiscito

Il Plebiscito era un istituto del Diritto Romano inteso ad interrogare il popolo per conoscerne la volontà su determinate questioni di interesse generale. Infatti la parola deriva dal latino plebiscitum a sua volta derivante dalla fusione delle parole plebs (“plebe, popolo”) e scitum (stabilito, deciso cioè “quello che ha stabilito il popolo”. Caduto in disuso con la fine della Repubblica e l’avvento dell’impero perché da quel momento in poi il popolo non ebbe più voce in capitolo nelle scelte politiche, fu riesumato in Francia da Napoleone III nel 1851 per far convalidare il suo colpo di stato.
Poi il Piemonte se ne servì abbondantemente.
Stupisce, leggendo il decreto di indizione, la velocità dei tempi e delle procedure previste, se si tiene conto che fu indetto in un momento non solo storicamente in preda alle convulsioni della guerra, ma in un paese con poche strade, pochi telegrafi e scarsa rete ferroviaria. Per tempi così ravvicinati, sarebbe occorso un odierno sistema informatico di quelli utilizzati dai moderni ministeri degli interni. In 2/3 giorni si organizzò tutto, si formarono le liste elettorali e si giudicarono i ricorsi. In realtà come per quelli precedenti, il Plebiscito dell’ottobre 1860 per l’annessione al Piemonte, fu una vanagloriosa, aberrante e tragica messinscena per salvare la forma di cui tutti i governanti europei erano ben consapevoli.

Al voto meno del 2% degli aventi diritto
Il Regno delle Due Sicilie contava circa 10 milioni di abitanti, votarono appena un milione e mezzo circa, ma valse a decretare la sua fine. Non bisogna dimenticare che il voto, per stessa disposizione del decreto, non era segreto ma palese: l’elettore doveva ritirare la scheda prendendola da una delle due urne rispettivamente contrassegnate con le scritte Si e No – e quindi deporla nell’urna centrale. I seggi erano presidiati da soldati armati quando non c’erano anche i camorristi; votarono i garibaldini, l’esercito piemontese ed i loro accoliti a piene mani. Non votarono i soldati delle Due Sicilie che difendevano l’antico regno, coloro che non riconoscevano la validità dello strumento giuridico e infine la gran massa del popolo che da quelle cose da “signori” si teneva alla larga. Anche perchè bastava manifestare il desiderio di votare per il mantenimento dello stato dei Borbone per essere arrestati e rinviati a giudizio accusati di voler distruggere la forma di Governo; a volte bastava un semplice sospetto e subire un fermo preventivo per impedire a numerosi cittadini di partecipare a voto.
Così scriveva lo storico lucano Tommaso Pedìo, (Potenza 1917 – Potenza, 2000), un personaggio al quale i Borbone erano tutt’altro che simpatici, noto particolarmente per i suoi studi sul Risorgimento italiano.

La prevista schiacciante vittoria dei SI
La votazione del 21 sancì a grandissima maggioranza dei votanti, l’unione del Regno delle Due Sicilie al regno sabaudo, compresa la Sicilia che aveva dato inizio a quest’amba-aradam proprio per affermare la sua autonomia ed indipendenza. Sulla regolarità della consultazione non é il caso di soffermarci.
Dopo il plebiscito Vittorio Emanuele II il 26 ottobre si incontrò a Teano con Garibaldi per dargli il preavviso del licenziamento, ma lo volle al suo fianco quando fece il suo ingresso ufficiale a Napoli il 7 novembre 1860. In quell’occasione le statue equestri di Ferdinando IV e Carlo di Borbone vennero coperte perché allora non si usava ancora abbatterle Il giorno successivo a Palazzo Reale Garibaldi comunicò ufficialmente i risultati del plebiscito proclamando Vittorio Emanuele II re d’Italia. Il 9 novembre 1860 l’ex dittatore partiva per l’esilio di Caprera.


Questi i risultati:
Napoli: 1.302.064 si, 10.302 no;
Sicilia: 432.053 si, 667 no!

Per solennizzare la vittoria, la piazza antistante la Reggia, una delle piazze più belle d’Italia, fu chiamata, nome che mantiene ancora oggi, “Piazza del Plebiscito”. Sarebbe il caso di cambiare questa toponomastica in omaggio alla rivisitazione storiografica che anche se assume a volte aspetti grotteschi come la c.d. “cancel culture”, in questo caso sarebbe più appropriata che mai. La piazza potrebbe essere intitolata perché no a Ferdinando I, oppure a Ferdinando II e perfino all’ultimo Re di Napoli, Francesco II, il famoso “Franceschiello, così chiamato con disprezzo da molti settentrionali e con affetto dai meridionali e che fra l’altro, ha in corso una procedura per essere dichiarato Beato dalla Chiesa Cattolica.
Nessuno di questi tre re borbonici ha l’onore di avere intitolata neppure un vicolo, mentre abbondano le piazze Garibaldi, le Vie Mazzini eccetera.
Solo a Torre del Greco, mi sembra di ricordare c’è una strada intitolata al Re Ferdinando II di Borbone
Quella di Garibaldi in fondo fu una rivoluzione mancata che ben altri sbocchi avrebbe potuto avere per tutta la Penisola, ma la Storia non é fatta di se e così il 13 febbraio 1861 Francesco II capitolò dopo aver salvato l’onore, almeno quello militare, di un regno crollato sotto la scommessa di un migliaio di persone, impresa resa possibile perché ormai i tempi erano maturi per il cambiamento, altrimenti le camicie rosse sarebbero state ributtate a mare in poche ore. Su questo rapido tracollo si sono fatte molte congetture e divagazioni. Secondo alcuni osservatori dell’epoca, oltre alla determinazione di Cavour, non fu estranea la determinante volontà dell’Inghilterra e quella, seppur in tono ridotto, della Francia, ma anche la speranza che forse le cose potessero cambiare in meglio. Cosa che molti meridionali stanno ancora sperando
21/10/2021

Decreto di indizione del Plebiscito
Art.1
Il Popolo delle Province continentali dell’Italia Meridionale sarà convocato pel dì 21 del corrente mese di Ottobre in Comizi per accettare o rigettare il seguente plebiscito: «Il Popolo vuole l’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele Re Costituzionale e suoi legittimi discendenti.» Il voto sarà espresso per «SI» o per «NO», col mezzo di un bollettino stampato.
Art.2
Sono chiamati a dare il voto tutti i Cittadini che abbiano compiuto gli anni 21 e si trovino nel pieno godimento dei loro diritti civile e politici. Sono esclusi dal dare il voto tutti coloro i quali sono colpiti di condanne siano criminali siano correzionali, per imputazione di frode, di furto, di bancarotta e di falsità. Sono esclusi parimenti coloro i quali per scadenza sono dichiarati falliti.
Art.3
Dal Sindaco di ciascun Comune saranno formate le liste dei votanti ai termini dell’articolo precedente le quali verranno pubblicate ed affisse nei luoghi soliti pel giorno 17 Ottobre. Reclami avverso le dette liste saranno prodotti tra le 24 ore seguenti innanzi al Giudice di Circondario che deciderà inappellabilmente per tutto il dì 19 detto mese.
Art.4
I voti saranno dati e raccolti in ogni Capoluogo di Circondario presso una giunta composta dal Giudice presidente e dai Sindaci dei Comuni del Circondario. Si troveranno nei luoghi destinarti alla votazione su di un apposito banco tre terne, una vuota nel mezzo e due laterali, in una delle quali saranno preparati i bollettini del «SI» e nell’altra quelli del «NO», che ciascun votante prenda quello che gli aggrada e lo deponga nell’urna vuota.
Art.5
Compiuta la votazione invierà immediatamente l’urna dei voti chiusa ed assicurata per mezzo del Giudice suo Presidente, alla Giunta Provinciale.
Art.6
In ogni capoluogo di Provincia vi sarà una Giunta Provinciale composta dal Governatore presidente dal Presidente e Procuratore Generale della Gran Corte Criminale e dal Presidente e Procuratore Regio del Tribunale Civile. Tale Giunta in seduta permanente, procederà allo scrutinio dei voti raccolti nelle Giunte Circondariali e invierà immediatamente il lavoro chiuso e suggellato per mezzo di un agente municipale o di altra persona di sua fiducia al Presidente della Suprema corte di Giustizia.

Art.7
Lo scrutinio generale dei voti sarà fatto dalla indicata Suprema Corte. Il Presidente di essa annunzierà il risultato del detto scrutinio generale da una tribuna che verrà collocata nella Piazza di S. Francesco di Paola.
Art.8

Per la città di Napoli la votazione si farà presso ciascuna della dodici sezioni, nelle quali è divisa la Capitale. La Giunta di ogni sezione sarà composta dal Giudice di Circondario presidente, dall’Eletto e da due Decurioni all’uopo delegati dal Sindaco. Saranno applicate per la città di Napoli tutte le regole stabilite per gli altri Comuni, in quanto alla formazione delle liste ed alla discussione dei reclami.
Art.9

I Ministri sono incaricati della esecuzione. “
Ministro dell’Interno
Raffaele Conforti

8 ottobre 1860

Abolito il Columbus Day, coinvolta e sconvolta la comunità italo-americana

Tenente Colombo

Il Tenente Colombo, con il suo immancabile impermeabile anche quando la temperatura sfiora i 40 gradi all’ombra, e con il suo aspetto fra l’imbranato ed il sardonico, risolve i più intricati casi di omicidio fra gli abitanti della Los Angeles benestante, è fiero della sua discendenza italiana che sbandiera ad ogni pié sospinto. Ora non so quale sarebbe il suo comportamento, ma sicuramente sarebbe sempre lo stesso: orgoglioso della sua discendenza italiana. Perché proprio a Los Angeles, l’11 ottobre scorso, in occasione dell’ ormai discusso Columbus Day, la giornata di festa per ricordare lo scopritore delle Americhe, è avvenuto un fatto grave ed emblematico, un assalto a colpi di vernice rossa come ora ormai è di prassi in omaggio al cosiddetto “Cancel Culture” che ha preso piede nei circoli intellettuali o pseudo tali della classe colta statunitense e che ho preso immediatamente piede fra le classi meno acculturate, come a dire gli estremi si toccano.

La Chiesa di San Pietro a Los Angeles
Interno della Chiesa


La chiesa cattolica italiana di Los Angeles, la Saint Peter Church, la chiesa di San Pietro, è stata imbrattata con della vernice rossa ed è stato messo uno striscione per spiegare il gesto: «Stop colonizing our land», “Finitela di colonizzare la nostra terra“.

Italiani estranei allo sterminio dei nativi
Ma chi è o chi sono gli autori di quest’aggressione che merita una netta condanna, se non altro perché una chiesa è sempre un luogo di pace e fratellanza? Solo un nativo eventualmente avrebbe il discutibile diritto di farlo perchè gli altri, i famosi cow boys del far west, prevalentemente Yankee (cittadini degli Stati Uniti d’America, arrivati prima del 1776), sono stati in assoluto gli sterminatori di tutti gli “indiani” americani.
Il Columbus Day, è, o meglio, era la festa dell’orgoglio degli italoamericani statunitensi che, hanno contribuito in maniera significativa alla crescita e allo sviluppo degli States ed oggi si vedono marchiati come colonizzatori e infatti la ricorrenza è stata cancellata in 25 Stati, diventando la giornata delle popolazioni indigene in quanto Colombo sarebbe uno dei responsabili del massacro dei nativi americani, simbolo della colonizzazione e del razzismo nordamericano.

Assaltata la chiesa cattolica italiana a Los Angeles

Dopo le statue di Cristoforo Colombo ad essere imbrattate di vernice rossa, stavolta è toccato ad una chiesa cattolica italiana, la Chiesa di St Peter a Los Angeles

Una statua di Colombo imbrattata di vernice rossa

L’assalto ad una chiesa italiana, perché è della religione dei “bianchi”, hanno colpito i bianchi sbagliati che da emigranti erano addirittura considerati meno dei nativi e spregiativamente chiamati “ macarones, mangiatori di maccheroni”.

Anche le parole che sono state scritte sulle pareti della chiesa «Land Back», «Usa» e «Stolen Land»: “ridateci la terra che avete rubato”, è fuori posto: Nessun italiano è diventato un farmers negli Usa né un possessore di sterminati “Ranches” depredati ai nativi.

Gli italiani alla guerra di secessione
Gli italiani parteciparono anche alla guerra di Secessione. I soldati borbonici e i garibaldini, entrambi messi alla porta dal nuovo Regno d’Italia, proclamato lo stesso anno in cui scoppiò la guerra di Secessione (1861), si ritrovarono a combattere anche in America su fronti opposti. Il Battaglione Dragoni di Borbone fu inserito nei Cazadores espanoles con circa 300 uomini. Ex soldati borbonici e fuggiaschi dalle Due Sicilie erano in tutte le formazioni militari della Luisiana, come il 10° e il 22° Reggimento, ed anche in formazioni militari di altri stati del sud, reclutati in 3 brigate di Guardia Nazionale con oltre 8000 uomini. Il 10° reggimento fanteria della Luisiana fu immediatamente inviato in Virginia al fronte ed ebbe un ruolo primario nella vittoria confederata di Manassas ove i Nordisti furono battuti.
Diversi furono anche gli Italiani nell’esercito del Nord, in molti casi si trattava di ex-garibaldini come quelli della Garibaldi Guards 39th New York Infantry Regiment. Italiani del Sud contro Italiani del Nord – A Bull Run, il 15 settembre 1862, si scontrarono il 39° reggimento Garibaldi Guard con 68 mazziniani e i borbonici del 10° Reggimento Luisiana. Vinsero i secondi. D’altra parte occorre sottolineare che mentre si combatteva una guerra civile per una giusta causa, l’abolizione della schiavitù, contemporaneamente al Nord continuavano i più efferati massacri contro i nativi.
Chiunque conosce la canzone la celeberrima canzone “Lacreme napulitane” sa la vita dolorosa e faticosa di questi nostri concittadini che lasciarono “casa, patria e onore” per cercare non la fortuna, ma una semplice vita decorosa, sa che di queste lacrime e dolorose vicende è intessuta la via dell’emigrazione italiana.

Fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quattro milioni di italiani, su 9 milioni circa di emigranti. Secondo il censimento ufficiale (U.S.CENSUS Bureau) del 2000, sono quasi 16 milioni (il 5,6%) i cittadini con origine italiana e rappresentano il sesto gruppo etnico.

Richiesta di ripristino del Columbus day

I leader della comunità italoamericana, riuniti a Dallas al Continental Avenue Bridge, dove si svolge di solito la celebrazione del Columbus Day e dell’Italian Festival, hanno chiesto ufficialmente di ripristinare il Columbus Day. Biden ha dato il classico colpo al cerchio ed uno alla botte, riabilitando la giornata per Colombo e rinsaldando il rapporto con gli Italo americani, mantenendo la “giornata degli indigeni”»

Il Columbus day istituito per riparare ad un massacro


Il Columbus day fu istituito dal presidente Benjamin Harrison nel 1892 oltre per ricordare la scoperta fatta dal Cristoforo Colombo anche come segno di pacificazione con l’Italia e la comunità italiana, dopo il linciaggio di 11 italiani a New Orleans, avvenuto il 14 marzo 1891 a New Orleans perché accusati di aver ucciso il capo della polizia.
Fu uno dei più truculenti linciaggi di massa della storia degli Stati Uniti. Gli italiani erano considerati degli incivili e dei mafiosi. Nel 1890 a New Orleans si trovava un cospicuo numero di immigrati: su una popolazione di quasi 274.000 persone, infatti, circa 30.000 erano italiani. La notte del 15 ottobre 1890 il capo della polizia David Hennessy venne colpito da alcuni colpi di fucile mentre tornava a casa. Prima di morire avrebbe detto che erano stati gli italiani. Vennero arrestati 19 italiani, di cui 11 accusati di aver avuto un ruolo diretto nell’omicidio. Gli imputati furono giudicati colpevoli dalla stampa ancor prima del processo con il codazzo delle solite affermazioni denigratorie nei confronti immigrati in generale, tale e quale come avviene oggi. Ma otto degli undici imputati vennero giudicati in tribunale, innocenti. Questo non si poteva accettare ed il sindaco di New Orleans , Joseph Shakespeare, che definì gli italiani «gli individui più abietti, più pigri, più depravati, più violenti e più indegni che esistono al mondo, peggiori dei neri », dette fuoco alle micce. Una folla inferocita dalle 3.000 alle 20.000 persone secondo le cronache del tempo, assaltò la prigione trucidando gli undici prigionieri.

Dal 1892 grazie al presidente B. Harrison si ricompose la frattura fra la comunità italiana e quella americana che nonostante il cancel culture, continua ancora oggi.

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