Autore di una famosa ricerca antropologica nei quartieri poveri della città partenopea, nel libro “la Fontana Rotta” descrive la Napoli dolente della povera gente.
Alla fine del 2021, c’è stata la ripubblicazione della sua ricerca sulla “cultura della povertà“, raccolta in un bellissimo libro “La Fontana Rotta”, facendo uscire da un immeritato oblio la figura dell’antropologo Thomas Belmonte, italo americano, ma napoletano di adozione. Si innamorò talmente la sua nuova “casa”, che quando morì, giovanissimo di Aids a solo 49 anni, volle che le sue ceneri fossero sparse nel Golfo di Napoli.
Thomas Belmonte (1946-1995) venne due volte a Napoli, nel 1974 e nel 1983 per fare le sue ricerche sul campo. La prima volta trovò una città misera ma speranzosa, la seconda volta la trova tragicamente cambiata, la miseria è rimasta la stessa, solo che ora non ci sono più i “bassi” come testimonianza di degrado urbano, ma c’è Scampia sorta con l’ambizione che una diversa concezione urbanistica portasse ad un miglioramento sociale. Niente di più sbagliato, come si è visto anche a Corviale, a Roma, sicché al posto della speranza ora c’è solo una diffusa disperazione.
Di origini italiane – i nonni erano di Giovinazzo un comune in provincia di Bari, il giovane antropologo americano quando arriva a Napoli la prima volta nel ’74, si stabilisce quasi subito in un appartamento in affitto a palazzo Amendola, un vecchio edificio risalente al millecinquecento, ancora in piedi, situato nei pressi il vicolo di Sedile di Porto, in pieno centro storico. Lì c’è un’antica fontana irrimediabilmente fuori uso, conosciuta come la Fontana del Re, una fontana rotta insomma, da cui il titolo del libro, simbolo della decadenza disfunzionale di Napoli.
I sindaci progressisti da Valenzi a Bassolino , passando per la Jervolino ,
poco hanno potuto fare per cambiare senso di marcia, così il loro tentativo di rivoluzione si scioglie in effimero maquillage. Gli ostacoli che hanno trovato sul loro cammino sono macigni di tutti i tipi e provenienze, ancora esistenti, che hanno ostruito ogni rinascita, amministrativa ed etica.
Le vicende degli abitanti di quel rione, assolutamente reali, costituiscono il fulcro della ricerca del suo dottorato.
Belmonte rimane a Napoli per un anno, tornando a più riprese negli anni successivi. Il suo libro esce negli Stati Uniti nel ’79. Dieci anni dopo sarà riedito con un’appendice che comprende il resoconto del suo viaggio di ritorno nell’83. La Fontana Rotta verrà tradotto in italiano solo nel ’97, diciotto anni dopo la prima edizione, due anni dopo la morte dell’autore.
Il libro ebbe un inaspettato successo negli Usa tale da essere recensito ben due volte dal New York Times e solo molto più tardi arrivò a Napoli. Belmondo diventato docente alla Hofstra University di New York, venne perfino candidato per il premio Pulitzer.
Come detto, nel 1983 ritornò nella città partenopea. Lo scopo del suo ritorno fu quello di continuare la ricerca per conto della fondazione National Endowment for the Humanities.
Quando torna a Napoli nell’83, sia l’autore che la città sono molto cambiati. Lo scenario che ritrova, segnato dalle conseguenze del terremoto, è ancora più degradato rispetto al periodo della sua prima ricerca, anche se, in un’intervista al Mattino del novembre ’83, Belmonte comunque elogia la capacità dei napoletani di superare le difficoltà, “di difendere la loro umanità, il che testimonia la vitalità di una cultura, che non è semplicemente di povertà, ma al contrario di grande ricchezza umana”. Ma sono lontani i tempi in cui si sarebbe potuto incontrare un povero, doppiamente sfortunato perché inabile, ma animato da una forza e serenità interiore. Gli scenari del 1983 lo non consentivano più.
Come dimenticare il celebre dipinto di Jose de Ribera, il pittore caravaggesco del 1600 chiamato lo “Storpio”. Rappresenta un giovanissimo mendicante, storpio alla mano e al piede; che reggendosi con una stampella chiede l’elemosina. Questo quadro è insieme simbolo della più estrema indigenza unita (forse) ad una estrema serenità d’animo. Anche i colori sono luminosi su uno sfondo di cielo sereno. Anche nell’ultimo gradino della scala sociale e della sfortuna fisica, pare dire l’autore, può annidarsi un soffio di speranza.
Qui si aggiunge una nota di colore, a corredo dell’intervista il Mattino pubblica una foto dello scrittore. Quando gli abitanti di Via del Sedile del Porto vedono la foto, riconoscendolo, senza leggere il testo, esclamano in automatico: “Hanno arrestato Tommaso!”
“Nel 1974 – scrive – come studente laureato alla Columbia mi era stato insegnato di fare domande su altri, ma mai a chiedermi se avessi una ragione plausibile o il diritto di porre le domande e di pubblicare le risposte. […] Quando ritornai a Napoli non ero più lo studente idealista di dieci anni prima, sicuro che i miei amici avrebbero apprezzato la mia ricerca per i suoi argomenti e per gli stessi motivi per cui l’avevano apprezzata i miei colleghi e i lettori. In realtà sapevo che scrivendo “La fontana rotta” avevo commesso un tradimento, ma speravo di farla di nuovo franca”.
La Napoli degli anni 70 semplicemente non esisteva più.
Il mondo che descrive Belmonte dal suo osservatorio non è quello degli emarginati che cercano un riscatto sociale e vogliono uscire dall’habitat di desolazione che ha plasmato ogni modo di comportarsi e di pensare. E’ un mondo sostanzialmente estraneo al cambiamento, alle lotte per il lavoro, per la casa, per i servizi sociali, che in quel periodo si portavano avanti negli altri quartieri anche limitrofi.
I poveri che descrive Belmonte nascono poveri e non sperano di sollevarsi da tale condizione. La precarietà economica ne determina ogni passo. Dominati da chi esercita il potere della ricchezza e della forza, in politica sono cinici e individualisti. Si uniscono per lottare con i loro simili solo in modo saltuario, e secondo umori imprevedibili. Il loro rapporto con le istituzioni è fondato sulla diffidenza e sul parassitismo ( cfr Luca Rossomando napolimonitor.it).
Quando Thomas prese possesso della sua abitazione, nel quartiere si diffuse subito la voce di un americano che era venuto ad abitarvi e immediatamente ci furono dei sopralluoghi da parte di alcuni che entrarono direttamente dal balcone in casa per vedere da vicino chi era l’intruso. Ma saputo che era un italo americano, anche se di origini pugliese, ma sempre un suddito del Regno ( dei Borbone non dei sabaudi) fu immediatamente accolto e “protetto”. Nonostante la sua origine non conosceva che poche e stentate parole italiane e credendo di imparare l’italiano, in realtà imparò il napoletano con un forte accento partenopeo degli abitanti dei bassi.
Tommaso Belmondo subito ribattezzato Tommasino o Tom, nella sua prefazione della celebre ricerca, afferma: “ tutto quanto so a proposito dei ceti bassi di Napoli l’ho acquisito vivendo insieme a loro. Ho imparato a conoscerli poco a poco in modo discontinuo. A mano a mano che hanno avuto fiducia in me mi hanno permesso di sapere di più su di loro: non cercavo di andare a caccia di maggiori informazioni in modo metodologicamente ben strutturato, quanto piuttosto di tenere gli occhi aperti e aspettare che queste informazioni arrivassero a me mentre mi facevo strada in quello che era fondamentalmente un ambiente estraneo”.
Nella prima edizione del libro curata dalla Casa Editrice Meltemi nel 1997, Domenico Scarfoglio presentando il libro, afferma, fra l’altro, che la vita del napoletano povero è il risultato di una negoziazione continua tra opposti, un compromesso dettato da una disperata volontà di vita. Tommasino, dalla frequentazione di Stefano ed Elena e la loro lotta per crescere la numerosa prole, ben sei figli, afferra gli aspetti portanti della vita del quartiere e il rapporto del quartiere con la città, si strutturano su queste basi, su questa cultura segnalata dalla forza e della astuzia. “Nel napoletano che passa per disordinato e tumultuoso per eccellenza, alla fine c’è una terribile prevalenza del più forte, del più ricco del più astuto, c’è un rispetto senza ipocrisia senza attenuazione per chi detiene la forza e la ricchezza”.
Oltre che alla osservazione dello svolgimento della vita contemporanea del sottoproletariato napoletano, Belmonte cerca di conoscerne anche la prospettiva storica culturale e per questo fu un lettore assiduo di tutti gli scrittori napoletani per attingere dei riscontri a quello che lui notava con il lavoro sul campo . Suoi autori preferiti furono specialmente Domenico Rea e il grande e misconosciuto ai più, Francesco Mastriani, quello della “Cieca di Portici” per intenderci e del “I Misteri di Napoli”, che invito a leggere, interfaccia de “I Miserabili” di V. Hugo.
Inoltre è da ricordare che nel 73 anno della ricerca dell’antropologo, fu l’anno in cui scoppiò a Napoli l’epidemia di colera con le connesse vicissitudini e, nonostante che il posto dove abitasse forse uno dei più “fragili” come si direbbe oggi, i napoletani in quell’occasione si dimostrarono come già avevano fatto in precedenti epidemie, che nel meridione non sono mai mancate, tutta la loro predisposizione ad adottare quelle precauzioni che oggi vengono in parte contestate in concomitanza della epidemia del coronavirus in maniera non proprio pacifiche. Belmonte riesce a restituire nelle sue sottigliezze attraverso il rigore evocativo e la precisione poetica della sua scrittura:
“Viene il venditore di scope. Sembra un goffo uccello tropicale, con il suo carico di plastica brillante fatto di secchi azzurri e scope gialle e rosa. Il tramonto è annunciato dall’insistente fischio del lattaio e dalle sirene delle voci materne che richiamano i bambini a casa.”
Thomas Belmonte morì a New York il 22 giugno del 1995. Il necrologio uscito sul New York Times, portava il titolo: Thomas Belmonte, 48, is Dead. Wrote of Lives of Naples’s Poor (Thomas Belmonte, di anni 48 è morto. Scrisse un libro sulla vita dei Poveri di Napoli – cfr iltascabile.com .